Una limited edition di 20 bottiglie esposte nella VIP Lounge, con quel packaging second skin unico, ecosostenibile, composto da carta 100% riciclabile. Ma anche una serie di tele che riproducono in grande scala i valori e la visione della maison, tracce metafisiche di viaggi reali, possibili, forse solo immaginari. Così Ruinart torna a miart nel 2022, affidando all’artista Gioele Amaro la personalizzazione del suo formato magnum e destinando parte del ricavato alla nota società benefit Treedom. Obiettivo: ridurre le emissioni di CO2 e favorire il riciclo dei materiali, per un lusso oculato, creativo, più rispettoso dell’ambiente. In altre parole: decisamente contemporaneo.
Come è nata l’idea di questa collaborazione?
«Per il contesto di miart, una fiera italiana, Ruinart voleva relazionarsi con un artista che ne condividesse il Paese, l’origine. Da qui è partita la mia challenge, che mi ha condotto a una serie di bottiglie magnum personalizzate e a particolari tele ispirate ad alcune città».
Di quali città si tratta?
«Sono luoghi reali o apocalittici, ma non mi piace rivelarne direttamente il nome. Posso dirti che, tra le altre, c’è Los Angeles – la riconosci qui, esposta, per i toni caldi, accesi. Ma c’è anche una città “azzurra”, perché è stata inondata dall’acqua. C’è un riferimento per tutto, ed è più o meno personale. Mi piace l’idea che ognuno possa immaginare, leggere, interpretare a proprio modo, in base al proprio vissuto e alle proprie suggestioni».
Qual è il tuo punto di incontro con Ruinart, il vostro orizzonte comune?
«Si tratta di opere tutte chiaramente ispirate alla natura, a ciò che di bello c’è intorno a noi. Il tramonto, la vista, gli orizzonti, ad esempio. La realtà di Ruinart è da sempre attenta a questo aspetto, quindi è stato in un certo senso spontaneo intraprendere questa strada».
Parliamo in generale del rapporto tra arte e brand – penso alle storiche collaborazioni tra Campari e i futuristi, ma anche, di recente, alla grande installazione di Bottega Veneta sulla Muraglia Cinese. Qual è, secondo la tua esperienza, la chiave vincente per permettere una buona collaborazione tra brand e artista?
«Di sicuro è necessario lasciargli il massimo della libertà, per permettergli di esprimersi al suo meglio. È quello a cui penso ogni volta che guardo quelle affiches incredibili di Campari: erano sì pubblicità, è vero, ma erano al tempo stesso una vetrina straordinaria per esprimere appieno la libertà dell’artista. Poi, di sicuro, nulla è possibile se manca una visione comune. Ma è importante che l’artista possa sentirsi libero per imprimere la giusta direzione».
La sostenibilità gioca un ruolo fondamentale in questo progetto. Come ti sei avvicinato a un’arte sostenibile?
«Sono nato come architetto, mi sono laureato a Parigi e ho lavorato da Jean Nouvel, uno studio di architettura pazzesco che mi ha insegnato il senso della parola “sostenibilità”, ma anche a scegliere i materiali giusti e ad avere, in generale, un occhio particolare per l’ambiente. Credo che la mia passione – ma anche la mia visione – sia nata da lì. In architettura, oggi, è proprio impensabile non occuparsi di questo tema».
Uno sguardo al futuro. Qualche progetto che vorresti anticiparci?
«Non posso ancora svelare i dettagli, ma ad agosto inaugurerò una mostra a Copenaghen, poi una a novembre a Parigi e sono in programma altre esposizioni in Cina per il 2022».
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