Non è la prima volta che parliamo di deaccessioning, specialmente negli ultimi due anni, e soprattutto adesso che la crisi globale porta a vagliare ogni strada possibile. A distanza di pochissimo tempo dall’ultimo caso, al Brooklyn Museum, il fenomeno regolato dalle linee guida dell’American Alliance of Museums (AAM) e dall’Association of Art Museum Director (AAMD) torna a far discutere sulle infinite potenzialità e sulle plausibili controversie che derivano dalla vendita di opere museali. È il Baltimore Museum of Art, stavolta, a dare l’input per una riflessione: tre dipinti – rispettivamente 3 di Brice Marden (1987-88), L’ultima Cena di Andy Warhol (1986) e 1957-G di Clyfford Still (1957) – porteranno al museo circa $65 milioni grazie a un’asta e a una vendita privata da Sotheby’s.
Iniziamo dunque col sottolineare le peculiarità di questo deaccessiong. Se, a settembre, la decisione del Brooklyn Museum di cedere 12 dipinti della propria collezione era seguita a numerosi licenziamenti, il Baltimore Museum sembra invece non fondare le proprie motivazioni sulle pressioni finanziarie:«Questa è un’iniziativa basata sulla visione, non sulla disperazione», dichiara il direttore Christopher Bedford, spiegando come, stavolta, la vendita dei dipinti si rifletterà piuttosto su un miglioramento delle condizioni, e in modo particolare sugli aumenti salariali.
Già nel 2018, il Baltimore aveva ceduto ben 7 lavori – tra cui un Andy Warhol e un Robert Rauschenberg – per diversificare la propria collezione, autofinanziando opere di donne e di artisti di colore. Ma se, allora, la scelta aveva suscitato grande clamore, a partire dallo scorso aprile – e fino al 2022 – è proprio l’Association of Art Museum Director a mostrarsi più flessibile verso simili operazioni: nel rispetto di alcune direttive essenziali, l’arte, in tempo di crisi, può assurgere a quel ruolo di asset class che garantisce liquidità per sostenere la cura diretta delle collezioni (qui il testo completo).
E così, spiegano dal museo, i primi 10 milioni di dollari del ricavato della vendita dei tre capolavori blue-chip saranno destinati alle nuove acquisizioni, mentre il resto dei proventi, circa 55 milioni di dollari, mirerà alla tanto menzionata direct care; ma questo, a sua volta, genererà entrate a favore di un aumento salariale, proprio per quelle figure che hanno fatto della cura la propria missione professionale (a partire dai curatori, dai registrar, dai conservatori). Insomma, per citare il titolo del New York Times, il Baltimore Museum ha deciso di «vendere arte per prendersi cura di uno staff, non di una collezione». Un nuovo modello da seguire?
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