Non è la prima volta che la vulcanica Jemima Stehli (London 1961) espone all’Artra. Nel 2001 aveva già allestito una personale nelle due sedi della galleria, intitolata significativamente Mirror 1, 2, 3. Ma in questo caso l’evento è ancor più memorabile perché si tratta di una doppia personale realizzata in coppia con John Hilliard.
I protagonisti di questo evento sono dotati di una straordinaria conoscenza del mezzo e di un’altrettanto spiccata consapevolezza delle sue potenzialità comunicative. Stehli è coinvolta in prima persona con il proprio fare artistico, innanzitutto in qualità di donna che opera in un ambiente a dominanza maschile. Per ciò il suo è un esercizio non retorico di esprit critique, che riflette e interroga provocatoriamente i limiti del sistema-arte (Strip, 1999-2000). Questi fattori si sono esplicitati nel corso degli anni mediante una costante pratica che implica l’autoscatto palesato e la citazione-détournement di opere classiche della storia della pittura e della fotografia, ove è questione dello snodo genere-potere-estetica.
D’altra parte, Hilliard è un protagonista della fotografia concettuale, per cui basti citare la poetica riflessione meta-fotografica di Camera Recording Its Own Condition (1971). Egli ha da sempre sottolineato e sostenuto il ruolo peculiare della fotografia nell’ambito delle forme d’arte, evidenziandone caratteristiche come il montaggio, il gioco delle messe a fuoco, l’esposizione multipla ecc., che permettono il distanziamento della fotografia dal suo presunto ruolo documentario. Negli ultimi dieci anni, Hilliard si è concentrato sull’ostacolo alla visione: mediante pannelli in cartone, ostruisce la vista del focus dell’immagine, contestando la definizione della fotografia come “pornografia dell’arte” e mettendone in evidenza il côté voyeuristico.
Il soggetto di questa mostra è evidentemente lo specchio, nelle sue declinazioni ottiche, letterali e t(r)opologiche. E a specchiarsi reciprocamente sono in primo luogo gli artisti, creando un gioco di rimandi raffinato, che s’interseca e si compenetra con una sottigliezza complessa. In esposizione sono infatti visibili fotografie realizzate a quattro mani e datate dal 2001 al 2003. In particolare Self-Portrait (2002), che raccoglie un groviglio di questioni concernenti lo statuto della fotografia e il ruolo dell’artista nel suo rapporto con sé stesso, con il medium utilizzato e con l’Altro. Un doppio autoritratto realizzato con l’autoscatto in cui la polaroid in bianconero dell’una è mise en abyme dal colore dell’altro. Marco Scotini arriva a citare le celebri pagine che Foucault dedicò alle Meninas di Velazquez: non pare proprio esagerare…
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