Sgherri ha molte personali alle spalle, e un lavoro corposo e sempre fedele alla sua poetica ma comunque sostanzialmente in progress. Il corpus dell’opera di Sgherri in dieci anni di personali si arricchisce a livello sintattico, con metodo: ogni serie di lavori organizza elementi significanti sempre nuovi, che verranno isolati e studiati nella serie successiva.
Se nella personale alla No Code di Bologna nel 2000 Sgherri sembrava aver ripulito la tela, approfondendo il tema del trompe l’oeil, riducendo la tavolozza al quasi monocromo, ecco che in questa mostra esso viene gradualmente ricondotto in una composizione popolata di simboli tipici ma anche del tutto nuovi.
Compaiono ad esempio lettere e numeri fluttuanti, che spostano ulteriormente la pittura di Sgherri verso il grafismo; non hanno alcun significato, l’autore li definisce “echi sonori” come se elementi così codificati risuonassero nel silenzio rarefatto che sembra effettivamente di percepire di fronte ad uno di questi lavori. Alla rarefazione non segue mai però un’effettiva saturazione: resta infatti come vera caratteristica del suo lavoro la delicatezza nella tecnica, e la capace misurazione dei simboli che non oberano il fruitore; anzi, benché il codice gli sia del tutto estraneo, esso risulta essere estremamente evocativo e tranquillizzante. I lavori sono tutti tecniche miste su cartoncino: lasciando all’acquerello il compito di definire un paesaggio delicato, velando il supporto di tinte pastello uniformi, l’olio definisce gli elementi che lo popolano: oggetti quotidiani, ma decontestualizzati e rare figure umane in lontananza.
Lo stilema di Sgherri ricorda un po’ il correlativo oggettivo di Pascoli: esattamente come il vocabolo scabro, l’oggetto di Sgherri espande la superficie semantica, rendendo il soggetto ricettivo e sviluppando una potente icasticità. Si prova di fronte a opere così coraggiosamente semplici una sorta di estatica tranquillità.
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