L’incrociarsi di vite altrui, di fatti personali e episodi inventati fanno da fil rouge nel lavoro di Mathilde ter Heijne. Sono vicende sommesse, a volte tragiche, legate alla sfera femminile e alla percezione individuale e collettiva di questa. Tensioni e tematiche ben rappresentate dai tre lavori in una mostra curata da Gabi Scardi, che mette ben in luce i temi cari all’artista Olandese.
La personale e condivisibile denuncia non è mai un grido nel vuoto, ma una cosciente riflessione che spesso trae spunto da materiale già esistente: cinematografico, storico, sociologico. Partendo così da una certa tradizione della rappresentazione femminile, l’artista offre con le sue opere un personale punto di vista, a volte per rovesciare stereotipi, altre volte per cambiare le sorti di una narrazione.
Nel bellissimo Suicide Bomb ad esempio, Mathilde ter Heijne reinterpreta ruoli femminili della storia del cinema in cui le varie protagoniste subivano una tragica fine, ma con la differenza che nel momento del lutto l’artista sostituisce al suo corpo quello di un manichino con le proprie fattezze, come a volere sacrificare una parte di se ed insieme assicurare un finale salvifico ai personaggi femminili.
Nel video Qo akti? l’artista costruisce un racconto basandosi sulla drammatica vicenda umana di Simone Weil, scrittrice e pensatrice francese, arrivata all’annullamento di se attraverso una pratica estenuante che la portò prematuramente alla morte. Qo akti? è anche un bell’esempio di come allestire con cura e precisione un lavoro composto da video: sei monitor disposti su due file da tre, sono appoggiati su di parallelepipedo bianco, come una scultura minimalista. I sei schermi mostrano alternatamente immagini videoriprese e colori. Figure e toni che si modulano gradatamente con un montaggio tutt’altro che frenetico. Come sempre più di rado accade nella video arte, è dato allo spettatore uno spazio ed un tempo adeguato per la “visione”.
Fuck Patriarchy è anche il titolo della videointallazione pensata appositamente per ViaFarini. Due videoproiezioni mostrano al visitatore un interno che richiama direttamente la pittura di Vermeer, ma l’apparente quiete delle mure domestiche nell’elaborazione della Ter Heijne fanno da sfondo a piccoli e grandi drammi consumati nell’intimità dell’abitazione, ai danni della figura femminile.
Qualcuno potrà notare una certa vicinanza di immaginario con le opere di una grande interprete dell’arte nordica, la finlandese Eija Liisa Athila. Anch’essa impegnata in un indagine legata ai drammi e alle alienazioni dell’universo femminile, ed anch’essa abile artista nell’uso del video e sensibile ai dati cromatici.
Il titolo Fuck Patriarchy giunge apparentemente come un grido dissonante all’interno di una mostra dove le opere in realtà non rompono mai un’atmosfera raccolta, giocata sempre su toni pacati, anche quando le storie raccontate parlano di situazioni estreme. Quindi il titolo della mostra è più da intendersi come un grido soffocato e, in tal senso ancora più tragico.
riccardo conti
mostra visitata il 26 febbraio 2004
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