Che rivoluzione l’arte di Caravaggio (Michelangelo Merisi, Milano 1571- Porto Ercole 1610)! Quante volte è stato scritto, proclamato in convegni ed illustrato con mostre. L’esposizione di Cremona si occupa ancora di questa rivoluzione, da un particolare punto di vista: ne indaga le origini e ne ricerca gli sviluppi successivi.
Rivoluzionario Caravaggio lo fu davvero. Nella Roma post raffaellesca e manierista propose straordinarie novità. Un accentuato naturalismo, l’interesse per il “vero visibile”, una nuova attenzione per la luce “non più asservita….alla definizione plastica dei corpi su cui incide” (Longhi), ma che dialogando con l’ombra diventa “folgorante rivelatrice delle figure e delle cose” (Briganti). E personaggi umili, popolani, anche quando sono Cristo e gli Apostoli. Rivoluzionaria anche la tecnica, Caravaggio abolisce il disegno che sostanziava la pittura rinascimentale di matrice fiorentina e romana.
La tesi che la mostra sostiene è che all’origine di questa rivoluzione sia la pittura lombarda del cinquecento, sulla quale si formò il giovane Caravaggio. Le opere presenti nelle prime sale (i “precedenti”) intendono evidenziare come il genio del pittore abbia raccolto e sviluppato tendenze proprie del milieu artistico della Lombardia cinquecentesca. L’esposizione si apre con l’Adorazione del Bambino di Foppa (un saggio in catalogo sottolinea il “realismo contadino” del bue e dell’asinello), prosegue con artisti di provenienza bergamasca e bresciana (Lorenzo Lotto e il Moretto, Moroni e Savoldo), la cui “pittura sacra dà … rilievo alla realtà della vita quotidiana” (Bayer). Il pastore con flauto del Savoldo con effetti di luce e ombre profonde anticipa esiti caravaggeschi; sono documentati lo sviluppo di una ritrattistica non idealizzata, ma fedele alla rappresentazione dal vero (Ritratto d’uomo con cappello di feltro di Lorenzo Lotto) e le nature morte di Figino e Fede Galizia.
L’idea che Caravaggio sia il risultato della “cultura di verità” (Caroli) del cinquecento lombardo è di Longhi (di cui Mina Gregori, una delle curatrici, fu allieva), che la argomentò nel celeberrimo “Quesiti caravaggeschi” del 1929. La mostra va oltre il pensiero longhiano ed aggiunge spunti di riflessione.
Anche questa non è esattamente una novità. Leonardo “padre” di Caravaggio era già stato presentato da Caroli a Milano (Il cinquecento lombardo da Leonardo a Caravaggio), ma l’idea sottostante era diversa da quella suggerita dalla Gregori (più accattivante la tesi di Caroli). Nella mostra di Cremona si insiste sulla “verità ottica”, sull’approccio scientifico con il quale Leonardo (presente con quattro studi botanici) si rivolgeva alla natura. Caroli aveva invece indicato in Leonardo il pittore dei “moti dell’animo”; da qui Caravaggio come sintesi di “impasti di verità ottica e complessità psicologica” (Caroli).
Nelle ultime sale sono esposte le opere di artisti che raccolsero l’eredità del Merisi. Ed è questa l’idea più interessante. Non si tratta banalmente dei cosiddetti caravaggeschi, ma di quei pittori lombardi che di Caravaggio possono essere considerati gli “eredi spirituali” per l’attenzione rivolta al “vero di natura”. In mostra ritratti di Fra’ Galgario (di un realismo a volte spietato) e i “pitocchi” del Ceruti, che trasformò dei mendicanti in protagonisti antieroici di opere di intenso verismo.
Una mostra che ha il pregio della sintesi, in contro tendenza rispetto a molte esposizioni oceaniche nelle quali è più facile perdersi che seguire un filo logico. Peccato che di Caravaggio siano presenti solo tre opere, di cui due Il cavadenti e Il Suonatore di Liuto di non certa autografia (parte della critica nega l’attribuzione al Merisi). E peccato che, complice l’assenza di pannelli esplicativi non sia sempre facile individuare nelle opere presentate un legame anche sottile con l’arte di Caravaggio.
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bellissimo articolo, davvero!