“I Dubuffet di Dubuffet”, è così che viene chiamata la collezione di opere che l’artista francese lasciò al Musée des Arts Décoratifs di Parigi nel 1967 nella persona del suo Conservatore, François Mathey che nel 1960 aveva organizzato la sua prima retrospettiva museale e con il quale aveva instaurato rapporti di stima e amicizia.
Dubuffet non amava i musei. Da spirito ribelle si oppose sempre fortemente alle norme, ai dogmi, alle istituzioni, a tutto ciò che “asfissa la cultura”. La decisione apparentemente contaddittoria di lasciare questo corpo di opere al Museo, al di là del rapporto di fiducia che lo legava al Conservatore, fu presa con il preciso scopo che questi lavori “viaggiassero”, costituissero cioè una sorta di “fondo itinerante” che non rimanesse intrappolato negli odiati ingranaggi museografici.
In un testo scitto per l’occasione, Ma donation au Musée des Arts Décoratifs dice: “Da tempo ho dichiarato la mia scarsa affezione per queste cittadelle della cultura mandarina che sono i musei …Vi è arte autentica là dove la parola Arte non si pronuncia, non si pronuncia mai”.
Ma anche se per Dubuffet la creazione d’arte sarà sempre antagonista della cultura, tuttavia non vede alternativa: “… perciò non sarebbe evidentemente in un museo che andrei ad appendere le mie tele se le cose andassero come vorrei io (nel qual caso i musei non esisterebbero proprio). Ma nello stato attuale delle cose, e che io lo voglia o no, nella città che vive non c’è spazio per le produzioni d’arte (…) in un posto che non sia un museo.
Questa mostra, frutto della collaborazione fra la Provincia di Milano, la Fondazione Mazzotta e il Centre Culturel français de Milan, rientra dunque nel progetto dell’artista di rendere visibile la sua opera. Prima di Milano la collezione è stata presentata a Madrid e a Bilbao e rientrerà nella sua appena restaurata sede parigina prima della grande retrospettiva che il Centre George Pompidou dedicherà a Jean Dubuffet nel 2001.
La rassegna dello Spazio Oberdan, che è stata curata da Dominique Stella e dall’attuale Conservatore del Museé des Arts Décoratifs, Marie-Claude Beaud, racconta e percorre in 95 opere, tra dipinti, gouaches, disegni e un’unica scultura, tutte le tappe artistiche del maestro tra il 1942 e il 1966, riassumendone l’universo poetico.
Dubuffet, nel suo spostarsi con uguale fortuna tra la figurazione e l’astrazione, si proclamò sempre nemico dell’estetica tradizionale, che sentiva lontana dall’esperienza dell’uomo comune, per proporre come modello le forme dell’arte spontanea e svincolata da ogni struttura culturale. “L’artista è un inventore che deve operare fuori dei sentieri battuti, lontano dai modelli, nella massima libertà”. Sono le premesse di quella che già nel 1945 definì Art Brut, una forma di rappresentazione libera e avulsa dalle contigenze del mondo dell’arte e dai suoi codici, un’arte affine all’espressione dei graffiti murali o ispirata alla spontaneità dei bambini o alla produzione dei malati mentali.
La ricerca di Dubuffet fu condotta in un atteggiamento di costante sperimentazione che lo portò a provare le possibilità espressive della materia, sempre molto povera e spesso estranea all’arte: pezzi di spago, rifiuti, giornali strappati, sabbia, elementi vegetali, ali di farfalle.
Questa attitudine lo portò a lavorare per cicli che lo assorbirono e lo occuparono alcuni per qualche giorno, alcuni per qualche anno: le Marionettes , i Portraits nei quali arriva alla disumanizzazione estrema mostrando i personaggi ritratti come una elaborazione dello spirito e non come una percezione dello sguardo, la serie delle Roses d’Allah, clowns du désert, quella dei Tableaux d’assemblage sino alle Matériologies dove viene esaltata la materia, il substrato, per arrivare al ciclo dell’Hourloupe che costituisce l’opera chiave del lavoro di Dubuffet. In quest’ultima serie di lavori ai quali si dedicò per un periodo di dodici anni l’artista elaborò un linguaggio “automatico”, sgorgato dall’inconscio: un’associazione di linee e forme che si moltiplicano e si combinano all’infinito dando luogo ad un mondo che si espande oltre la superficie della tela e invade lo spazio. Utilizzando poliuretano e materie plastiche che consentivano una molteplicità di assemblaggi e manipolazioni, creò oggetti che costituiscono un universo perfettamente autonomo e rivaleggiano con la realtà.
In seguito Dubuffet proseguirà la sua impresa di esploratore che si concluse con la sua morte, avvenuta nel 1985, con gli ultimi disegni a matite colorate, della serie Non lieux e Activations.
Emauela Filippi
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