I tre piani della Fondazione Mudima sono pervasi dai colori delle fotografie dipinte e delle tele di Francois-Marie Banier. Subito ci si trova di fronte ad una serie di stampe in bianco e nero, a volte del tutto sommerse tra le pennellate e le scritte dell’artista (come il ciclo dei “Tournesol”). Pensieri isolati, brevi racconti, il titolo dell’opera stessa: sono le parole lasciate sui suoi lavori dall’originale ed eclettico cinquantatreenne parigino: “Dipingo molto rapidamente. Bisogna che io sia in forma per dipingere. Allora mi sento come un veggente, piuttosto un medium […] Non ho alcuna idea da dove e come io cominci un quadro, né del sentimento che mi guida. Il suo punto di partenza nasce dal caso, il quale è fatto, come sapete, di milioni di osservazioni, di pensieri folgoranti, di parole che spesso appaiono tra le pennellate, segni dei mondi che mi si presentano…”
Siamo al piano superiore, e capita di imbattersi in opere senza scritte, ma è già il titolo a dichiararlo come “Bleu sans mots” (1999, olio su tela). Un grande muro ospita le due tele senza cornice (174 x 595 cm & 168 x 500 cm) “Les enfants de Manguera” (1999), frutto della collaborazione con i bambini di Rio de Janeiro. Come queste, “See” (1999) colpisce particolarmente: le masse di colore, con dominanza bluette, sembrano muoversi come le acque di una cascata.
Lascio la Fondazione Mudima, bellissimo spazio dedicato all’arte, per recarmi alla Triennale. “Fotografare è scrivere in modo definitivo, per l’eternità, un volto, un corpo. Fotografare, ossia trasmettere le sue gioie, i suoi dolori, i suoi interrogativi, la sua forza, la sua singolarità. Non la propria, quella del modello. Meno compare il fotografo, meno egli conta, meglio egli trascrive. […] Io non faccio posare: sono sorpreso, sono sempre sorpreso dall’altro. È di lui infatti che si tratta. Io accompagno. Je suis in tutti e due i significati: io sono dal verbo etre e io seguo dal verbo suivre…”. Le istantanee in bianco e nero di Banier riescono a cogliere la genesi dei movimenti o l’istante di massima intensità di espressioni più o meno quotidiane. “Rue du bac” e “Rue Monsieur” ci mostrano due basse ed anziane signore che faticano a camminare, entrambe immortalate nel momento di sollevare un piede da terra. L’accostamento di una coppia di foto con protagonisti Madeleine Renaud e Jean Loius Barrault fa riflettere: come un ellissi temporale di un montaggio cinematografico, possiamo osservare, a distanza di cinque anni, il decadimento fisico dei protagonisti. Basterebbe concentrarsi sul confronto fra gli sguardi del 1987 e quelli del 1992 per cogliere la “trasformazione” dei due soggetti.
Banier fotografa degli individui sia anonimi che famosi: fra i più conosciuti spiccano l’espressione severa di Virna Lisi, quella drammatica di Silvana Mangano e quella stupefatta e meravigliata di Truman Capote. Rapiscono gli sguardi di Kate Moss e Johnny Depp ancora assonnati e Jim Jarmush, che passeggia per la sua New York. Non possono lasciare indifferenti la tristezza di Faye Dunaway, seduta in un “café” parigino nel 1991 e la solitudine di Samuel Beckett, sulla sabbia di Tangeri. Oltre queste ne rimangono alcune storiche: vedere Marcello Mastroianni ridere e danzare con passo da professionista a fianco di un pianoforte non è un’immagine comune, così come il primo piano di Vladimir Horowitz che estrae la lingua.
Anche qui c’è spazio per una serie di fotografie dipinte e scritte: sempre il maestro Horowitz è protagonista di quella in cui Francois Marie Banier scrive dall’alto in basso la storia del loro incontro. Infine l’autoritratto: l’artista appare coperto da un passamontagna e a spiccare sono gli occhi di una persona che sa e ama guardarsi intorno.
Fino al 1991 l’artista parigino non aveva mai esposto. Quasi dieci anni dopo in questa mostra milanese le opere presentate sono tante, tutte degne di nota e affascinanti, e spendere una parola per ogni stampa, ad esempio, non equivarrebbe mai a trovarsene circondato.
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