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La mostra “Vincenzo Agnetti: opere da collezioni private” alla galleria Matteo Lampertico di Milano, realizzata in collaborazione con l’Archivio Agnetti e curata da Marco Meneguzzo, presenta opere provenienti da collezioni private italiane mai state sul mercato, ma incluse nelle principali personali dell’artista.
Probabilmente influenzato dalla sua intensa attività come teorico dell’arte Vincenzo Agnetti è finito con l’esplorare le corrispondenze tra linguaggio verbale e linguaggio visivo, adottando la parola come elemento fondamentale della sua opera.
Le opere dell’artista milanese dimostrano come l’arte concettuale sia un fenomeno italiano che incarna delle peculiarità rispetto al concettualismo di stampo internazionale.
Gli artisti concettuali rifiutando la materialità dell’oggetto si appropriano del linguaggio scritto come modello ontologico-performativo trasformando lo spettatore che guarda un’opera d’arte in un lettore che riflette su un’opera d’arte. La smaterializzazione dell’opera d’arte, uno dei capisaldi dell’arte concettuale, come manufatto artigianale ci riporta non solo al concetto di unicità dell’oggetto artistico, ma a una ridefinizione del concetto stesso di arte.
Come nel caso di Progetto per una vera scultura (1972) in cui la scrittura, come afferma lo stesso Agnetti, «spogliata delle ambiguità del linguaggio ci offre un’opera tradotta in tutte le lingue». Le parole diventano sostanzialmente un fondamentale suggerimento di lettura dell’opera d’arte che avvalendosi di una ricchezza interpretativa e ontologica si differenziano notevolmente dagli “statements” di artisti quali Sol LeWitt, John Baldessari, Lawrence Weiner, Joseph Kosuth. Mentre per questi artisti lo scopo dell’uso della trascrizione linguistica è un modo per denaturare l’opera enunciandone il processo di produzione, per Agnetti diventa il modo per evidenziare le contraddizioni e i paradossi della comunicazione universale. Come in Frammento di Tavola di Dario tradotto in tutte le lingue (1973) o in Sei villaggi differenti (1974) in cui la trascrizione numerica di un testo cuneiforme o le consonanti di un antico fonema dimenticato riflettono l’oblio del linguaggio che per quanto universale tende a divenire incomprensibile con il tempo.
In opere come Tutta la storia dell’arte è in questi tre lavori (1973) è evidente il rimando a One and three chairs di Joseph Kosuth. Agnetti come Kosuth avvalendosi della presenza fisica (la realtà), della rappresentazione iconica, (i segni), e della rappresentazione logica, (i numeri), fa propria la concezione secondo la quale è il contesto in cui viene recepita un’opera a definirne il significato. Vale a dire che una merda d’artista (Piero Manzoni) come un orinatorio (Marcel Duchamp) cambiano di significato se a veicolarlo interviene un messaggio.
Una mostra quella di Vincenzo Agnetti che riflette l’importanza dell’arte concettuale italiana non solo in dialettico scambio con la realtà artistica degli anni in cui opera, gli anni Settanta del XX secolo, ma soprattutto per l’indagine che getta sulle basi del concetto di arte così come è intesa oggi: da un’esperienza estetica ad un’esperienza intellettuale in cui il piacere è dato non dalla pratica visiva ma dall’attività del pensiero.
Sara Marvelli
mostra visitata il 10 gennaio
Vincenzo Agnetti: opere da collezioni private
Matteo Lampertico Arte Antica e Moderna
Via Montebello 30 – 20121 Milano
Info: tel. +39 02 36 58 65 47 | fax +39 02 36 58 65 48
info@matteolampertico.it | www.matteolampertico.it