“I miei disegni potrebbero essere disegnati su qualsiasi supporto o materiale, come i geroglifici egizi, i pittogrammi maya o indios. I miei disegni vogliono attivare una superficie e diffondere energia. E trasformare una superficie neutra, anonima, dandole una personalità”. Così, con poche e chiare parole, Keith Haring (Kutztown, Pennsylvania, 1958 – New York, 1990) descriveva la sua poetica, adulta e infantile insieme. Piccina nelle riletture sui generis degli eroi dei cartoni di Walt Disney, cresciuta invece sulle strade e nelle metropolitane di Pittsburgh e New York, tra confronti con i grandi moderni (Klee, Dubuffet, Pollock) e volontà di farsi interprete di un’idea estetica in perenne evoluzione, quella di Haring è un’arte capace di essere, per il suo linguaggio semplice e schietto, davvero universale.
La sua breve vita (morì nel 1990, stroncato dall’Aids, a soli 31 anni), i continui arresti per l’attività –illegale- di graffitaro, la grande capacità di comunicare la sua voglia di fare arte per e con il pubblico –ecco spiegate le molte performance dal vivo– hanno contribuito ad aumentarne la popolarità tanto da consegnarlo al mito. Trasformando questo bizzarro artista nato nella profonda provincia
Un fenomeno, quello di Haring, da noi compreso un po’ troppo tardi. Basti pensare che i graffiti da lui realizzati nel 1982 sullo zoccolo del Palazzo delle Esposizioni a Roma furono “puliti” dieci anni dopo per non fare brutta figura con Gorbaciov che veniva a farci un giro. Stessa sorte l’altro graffito dipinto sulle pareti trasparenti del ponte sul Tevere nella metropolitana di Roma: occultava la vista sul fiume, quindi nel 2001 il Comune decise il colpo di spugna. Bel modo di ringraziare un artista che nel 1980, quando l’Irpinia fu messa in ginocchio dal tristemente famoso terremoto, si era dato da fare con Andy Warhol per raccogliere fondi in favore dei bimbi rimasti senza casa. Per fortuna sono ancora lì a Pisa, sul muro della Chiesa di Sant’Antonio Abate, i graffiti di Tuttomondo, dedicati alla pace universale, realizzati nel 1989 all’indomani della scoperta della malattia e che sono da considerare forse un po’ come il suo testamento spirituale.
C’è comunque l’occasione, per così dire, di redimersi. Archiviata con successo la mostra conclusasi nel gennaio 2006 alla Triennale di Milano, ora il Serrone della Villa Reale di Monza ospita il monumentale Murale di Milwaukee, 24 pannelli di legno in 30 metri per 2 e mezzo double face, che per la prima volta in assoluto viene esposto fuori dagli Stati Uniti. Lungo il percorso tante fotografie e un video che documenta le fasi dell’esecuzione, con Haring che si racconta in una performance che ricorda quella del 1985 nel negozio Fiorucci di Milano, quando realizzò coram populo, in una notte e
Realizzato nel 1983 da Haring, allora artista emergente, quando aprì Museo Haggerty, il Murale di Milwaukee rappresenta il suo campionario espressivo: il bambino a gattoni (per lui, the Baby), i barking dogs, i ballerini di breakdance, la tv con le ali, la faccia con tre occhi che fa la linguaccia. Semplice, immediata e positiva, la creatività di Haring riesce davvero a far parlare i muri, che come amava ripetere sono fatti per essere disegnati tanto quanto un sabato sera per far baldoria e la vita per essere celebrata. E se l’arte, sempre parole sue, unisce l’uomo e il mondo e vive attraverso la magia, ecco perché quando guardiamo queste figurine gialle ingenue e un po’ naif, che ricordano tanto le sculture precolombiane quanto i cartoni animati della nostra infanzia, ci sembra di essere, per un istante, fuori dal tempo.
elena percivaldi
mostra visitata il 28 marzo 2007
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...aiutatemi a pensare...le figure di quale altro artista sono diventate un'icona come quelle di Haring? Sicuramente Mirò...e poi?