Siamo nel mezzo delle cose, sotterrati dalla luce, e da questo cuore iniziamo a vedere. Mentre il mondo si mantiene infinitamente opaco. La
techné dell’abitare il mondo: vedere la luce e insieme il gioco d’ombre. Se la visione agisce per contatto, noi finiamo per vedere con le mani. Così l’arte non è una variante del pensiero. Con essa si vede in sospensione, fuori dalle asettiche relazioni ottiche, palpando il mondo.
Nella pratica della pittura s’innesta l’attività magica della previsione.
MP & MP Rosado attualizzano una riflessione sulla relazione spazio-tempo, ovvero su ciò che le unisce, la modificazione. I collage fotografici
Transformaciones sono una documentazione chiaroveggente, un archivio futuribile, un’appendice iconografica di possibilità di sviluppo scartate. Il duo spagnolo lavora sulla manipolazione visionaria di fotografie scattate prima dell’inizio dei lavori di ristrutturazione dello spazio espositivo, avanzando ipotesi entropiche sull’ambiente. Visioni eventuali di una sua evoluzione ormai repressa. Sulla stessa via della mimetizzazione dello spazio ragiona l’intervento site specific di
Abdelkader Benchamma: l’entropia guidata dell’interno lascia campo alle prospettive “scorrette” -zone di vuoto, frazioni spaziali sottratte, esasperazione di luoghi mancati- del wall painting in bianco e nero. L’abbraccio di un’assenza, di un vuoto condensato.
Su questo sfondo,
Bruna Esposito e il suo lavoro di deformazione del simbolo. La fluidificazione dei contorni di una bandiera immersa nell’acqua sviluppa la riflessione sulla decostruzione del referente simbolico e sul
déreglement della visione.
Igor Eškinja costruisce un’installazione filtrata dal mezzo fotografico. Gli scatti sostengono, attraverso “prospettive indotte” dal taglio, esili strutture architettoniche in nastro adesivo. Il ciclo
Man in:side è un’amplificazione de-formativa, in cui il momento fotografico diventa consistenza dell’operazione artistica.
Quello di
Jürgen von Dückerhoff è un lavoro nomade, sul confine tra pittura e scultura: pagine di libri coperte di graffi che ne alterano il contenuto e danno forma alle figure, “sbozzando” la materia. Il risultato conserva un tenue sapore d’espressionismo cinematografico: le luci inclementi del
Caligari di Wien, proiettate dal basso, e un occhio assediato, rubato allo
Chien andalou di Boñuel.
Delle cose viste rimangono le loro proiezioni, i fantasmi, presenze virtuali che oscillano sulla soglia della visione, nell’impasto del ricordo.
Angelo Mosca presenta due dipinti di piccolo formato, il precipitato di una sorta di perenne dandismo performativo. Una “talpa” in seno alla borghesia, per registrare gli indizi della
débauche. L’atmosfera è quella del fascino stantìo di un passato perpetuato oltre i chiari segni della sua crisi. La nostalgica illusione di vivere nella stessa
fin de siècle. E un pittore in preda alle cose, che vive di fascinazione, dentro e fuori il suo ruolo.