Quella di
André Butzer (Stoccarda, 1973; vive a Berlino) è una pittura densa e aggressiva, fatta di forme lineari e corpi informi, in cui astrazione e figurazione si rivelano intercambiabili. Guardando gli ultimi lavori di Brannon, si scorgono i rimandi con disegni recenti, in cui ai suoi
Friedens Siemens, personaggi seriali dai volti deformi – versioni fumettistiche del celebre urlo di
Munch, presenti in due delle opere in mostra – si accompagnavano gli stessi segni protagonisti delle opere astratte presentate ora in galleria.
Si tratta di tele di grandi dimensioni in cui segmenti e figure geometriche colorati si ripetono su sfondi per lo più monocromi. I loro intrecci sembrano costruire reticolati che imbrigliano il caos delle pennellate di grigio sullo sfondo, nervose e accese, attraverso segni più definiti. Due delle ultime opere,
Senza titolo come le altre, lasciano il monocromo per approdare a un tripudio di colore, le cui stratificazioni grondano di cromatismi e materia densa, variamente coagulata sulla tela, dando un forte dinamismo. Che appare comunque malato, tetro e minaccioso, come un carnevale sanguinario.
Quella di Butzer è un’estetica cruda e sgraziata, fatta di colori saturi e intensità aggressive, che ricorda Espressionismo e Art Brut. Come un rituale ossessivo, che sposa la rapidità di esecuzione a motivi ripetuti serialmente, in reiterate approssimazioni di una stessa idea.
Al piano superiore, la materia cede il passo alla forma e l’atmosfera si fa più rarefatta. La prima personale italiana di
Matthew Brannon (St. Maries, 1971; vive a New York) s’ispira alle atmosfere di un dietro le quinte. La parte nascosta di uno spettacolo è suggerita da due opere “rovesciate”, un wall painting in acrilico nero che ricorda il retro di un quadro e un’installazione su muro che dà l’impressione di un backstage dal quale non si può uscire.
Questa sensazione di inaccessibilità è ribadita nei suoi lavori che combinano grafica, pittura e scrittura, il vero centro della mostra.
Le stampe dell’artista dell’Idaho isolano le silhouette di oggetti quotidiani, dalle forme stilizzate e appiattite, ravvivate attraverso una ricercata
palette di colori. Le accompagnano didascalie che, anziché chiarirne il significato, lo complicano ulteriormente, dandogli una profondità psicologica inattesa, che contrasta con la loro apparente banalità. Con piccoli racconti, frammenti di dialoghi o brevi frasi, che parlano di eccessi e abusi, ambizione e fallimento, sesso, strutture di potere e rapporti in crisi. Talvolta anche il titolo sovrappone un ulteriore piano interpretativo.
Brannon gioca con testi e immagini, destabilizzando la percezione dello spettatore. Facendo scivolare il piano estetico su quello di una narrazione imprevista e incompleta, immagine e parola entrano in cortocircuito e lasciano lo spettatore nell’imbarazzo di decifrare collegamenti oscuri e ricostruire contesti del tutto sconosciuti.