Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
09
dicembre 2009
fino al 10.I.2010 Felice Schiavoni / Silvio Dagnini Mantova, Palazzo Te
milano
Storia di un quadro esiliato in Siberia e di un progettista geniale e trendy. Il primo è di Schiavoni, artista veneziano, il secondo fu Dagnini, architetto mantovano. A conferma che nessuno è profeta in patria...
La tela, imponente – 3,25 metri di lunghezza per
2,56 di altezza – campeggia al centro dell’ala centrale di Palazzo Te, e
a vederla così non si direbbe proprio che ne ha passate di tutti i colori.
È La morte di Raffaello, olio su tela di Felice
Schiavoni (1803-1881),
versione finale frutto di anni di studi e ripensamenti di quest’artista veneto
poco profeta in patria e autentica celebrità altrove, ossia in Russia. A volere
il quadro fu infatti Alessandro Nicolaevic, il futuro zar Alessandro II, come
“ricordo” del viaggio in Italia. A Venezia conobbe gli Schiavoni, padre (Natale) e figlio, vide qualche tela di
Felice e, detto fatto, nel 1841 la commissione.
Il tema era noto, visto che proprio col Romanticismo
nacque il mito di Raffaello artista “self made”, amato e amante, grandissimo tra i
grandi. Lo testimonia un certo Ingres, che dai suoi amori con la Fornarina trasse una tela
forse un poco oleografica, ma sobria ed elegante.
Schiavoni termina il quadro nel 1859 e lo spedisce a San
Pietroburgo, dove trova ad attenderlo Alessandro ormai zar di tutte le Russie.
L’opera entra nel Palazzo di Caterina, la residenza estiva, dove resta fino al
giugno 1941. Coi tedeschi alle porte, una mano pietosa lo stacca dalla parete,
lo arrotola e lo spedisce a Novosibirsk, in Siberia. E per fortuna. Il Palazzo
è ridotto a un cumulo di macerie. Sarà ricostruito nel 1957.
Ma della tela dello Schiavoni si perdono le tracce. In
Siberia qualcuno l’ha ricoperta di colla per evitarle i danni del freddo.
Quando, finalmente, è estratta dal cilindro, lo spettacolo è desolante: lo
strato di lacca scura ha fatto letteralmente crollare il colore in più punti e
lunghe striature bianche tagliano la tela come ferite di guerra.
A Mantova si vede come il restauro abbia riportato
all’originaria brillantezza le diciannove figure disperate e sospese che aspettano
la notizia del decesso del maestro nell’anticamera della stanza. Tra loro, Giulio
Romano, il Bembo, il Castiglione, l’Ariosto, Michelangelo e Benvenuto Cellini, e un ritratto di Schiavoni
senior. A farla da padrone è tornato il colore. Come nella migliore delle
tradizioni venete.
Terminata la “meditazione” davanti all’opera, per la sua intensità
equivalente a un soggetto sacro, s’incontrano una cinquantina di disegni di un
architetto mantovano anch’egli celebre alla corte zarista e semisconosciuto in
patria: Silvio Dagnini (1867-1942).
A farlo lavorare fu stavolta Nicola II, che gli commissionò
non solo una centrale elettrica, l’ospizio per i mutilati della tremenda
guerra russo-giapponese e il primo garage per le automobili di corte, ma anche
mobili, sedie e altri arredi, dallo zar stesso approvati con una croce rossa
segnata a matita.
Urbanista nella miglior tradizione del Rastrelli e del Quarenghi, dunque, ma anche designer
razionalista molto apprezzato e chic. Ne sanno qualcosa i ricchi commercianti e
mecenati che si rivolsero a lui per avere le loro trendy ville padronali e
palazzine.
La Russia zarista amava gli italiani. E quella di
Putin?
2,56 di altezza – campeggia al centro dell’ala centrale di Palazzo Te, e
a vederla così non si direbbe proprio che ne ha passate di tutti i colori.
È La morte di Raffaello, olio su tela di Felice
Schiavoni (1803-1881),
versione finale frutto di anni di studi e ripensamenti di quest’artista veneto
poco profeta in patria e autentica celebrità altrove, ossia in Russia. A volere
il quadro fu infatti Alessandro Nicolaevic, il futuro zar Alessandro II, come
“ricordo” del viaggio in Italia. A Venezia conobbe gli Schiavoni, padre (Natale) e figlio, vide qualche tela di
Felice e, detto fatto, nel 1841 la commissione.
Il tema era noto, visto che proprio col Romanticismo
nacque il mito di Raffaello artista “self made”, amato e amante, grandissimo tra i
grandi. Lo testimonia un certo Ingres, che dai suoi amori con la Fornarina trasse una tela
forse un poco oleografica, ma sobria ed elegante.
Schiavoni termina il quadro nel 1859 e lo spedisce a San
Pietroburgo, dove trova ad attenderlo Alessandro ormai zar di tutte le Russie.
L’opera entra nel Palazzo di Caterina, la residenza estiva, dove resta fino al
giugno 1941. Coi tedeschi alle porte, una mano pietosa lo stacca dalla parete,
lo arrotola e lo spedisce a Novosibirsk, in Siberia. E per fortuna. Il Palazzo
è ridotto a un cumulo di macerie. Sarà ricostruito nel 1957.
Ma della tela dello Schiavoni si perdono le tracce. In
Siberia qualcuno l’ha ricoperta di colla per evitarle i danni del freddo.
Quando, finalmente, è estratta dal cilindro, lo spettacolo è desolante: lo
strato di lacca scura ha fatto letteralmente crollare il colore in più punti e
lunghe striature bianche tagliano la tela come ferite di guerra.
A Mantova si vede come il restauro abbia riportato
all’originaria brillantezza le diciannove figure disperate e sospese che aspettano
la notizia del decesso del maestro nell’anticamera della stanza. Tra loro, Giulio
Romano, il Bembo, il Castiglione, l’Ariosto, Michelangelo e Benvenuto Cellini, e un ritratto di Schiavoni
senior. A farla da padrone è tornato il colore. Come nella migliore delle
tradizioni venete.
Terminata la “meditazione” davanti all’opera, per la sua intensità
equivalente a un soggetto sacro, s’incontrano una cinquantina di disegni di un
architetto mantovano anch’egli celebre alla corte zarista e semisconosciuto in
patria: Silvio Dagnini (1867-1942).
A farlo lavorare fu stavolta Nicola II, che gli commissionò
non solo una centrale elettrica, l’ospizio per i mutilati della tremenda
guerra russo-giapponese e il primo garage per le automobili di corte, ma anche
mobili, sedie e altri arredi, dallo zar stesso approvati con una croce rossa
segnata a matita.
Urbanista nella miglior tradizione del Rastrelli e del Quarenghi, dunque, ma anche designer
razionalista molto apprezzato e chic. Ne sanno qualcosa i ricchi commercianti e
mecenati che si rivolsero a lui per avere le loro trendy ville padronali e
palazzine.
La Russia zarista amava gli italiani. E quella di
Putin?
articoli correlati
L’esordio
della Fondazione Ermitage in Italia
elena percivaldi
mostra visitata il 10 ottobre 2009
dall’undici ottobre 2009 al 10 gennaio 2010
Felice
Schiavoni / Silvio Dagnini – Un pittore e un architetto alla corte degli Zar
a cura di Larisa V. Bardovskaya
Palazzo Te
Viale Te, 19 – 46100 Mantova
Orario:
lunedìore 13-18; da martedì a domenica ore 9-18
Ingresso: intero € 10; ridotto € 8
Cataloghi Skira
Info: tel. +39 0376365886; fax +39 0376220943; segreteria@centropalazzote.it; www.centropalazzote.it
[exibart]