La tela, imponente – 3,25 metri di lunghezza per
2,56 di altezza – campeggia al centro dell’ala centrale di Palazzo Te, e
a vederla così non si direbbe proprio che ne ha passate di tutti i colori.
È
La morte di Raffaello, olio su tela di
Felice
Schiavoni (1803-1881),
versione finale frutto di anni di studi e ripensamenti di quest’artista veneto
poco profeta in patria e autentica celebrità altrove, ossia in Russia. A volere
il quadro fu infatti Alessandro Nicolaevic, il futuro zar Alessandro II, come
“ricordo” del viaggio in Italia. A Venezia conobbe gli Schiavoni, padre (
Natale) e figlio, vide qualche tela di
Felice e, detto fatto, nel 1841 la commissione.
Il tema era noto, visto che proprio col Romanticismo
nacque il mito di
Raffaello artista “self made”, amato e amante, grandissimo tra i
grandi. Lo testimonia un certo
Ingres, che dai suoi amori con la Fornarina trasse una tela
forse un poco oleografica, ma sobria ed elegante.
Schiavoni termina il quadro nel 1859 e lo spedisce a San
Pietroburgo, dove trova ad attenderlo Alessandro ormai zar di tutte le Russie.
L’opera entra nel Palazzo di Caterina, la residenza estiva, dove resta fino al
giugno 1941. Coi tedeschi alle porte, una mano pietosa lo stacca dalla parete,
lo arrotola e lo spedisce a Novosibirsk, in Siberia. E per fortuna. Il Palazzo
è ridotto a un cumulo di macerie. Sarà ricostruito nel 1957.
Ma della tela dello Schiavoni si perdono le tracce. In
Siberia qualcuno l’ha ricoperta di colla per evitarle i danni del freddo.
Quando, finalmente, è estratta dal cilindro, lo spettacolo è desolante: lo
strato di lacca scura ha fatto letteralmente crollare il colore in più punti e
lunghe striature bianche tagliano la tela come ferite di guerra.
A Mantova si vede come il restauro abbia riportato
all’originaria brillantezza le diciannove figure disperate e sospese che aspettano
la notizia del decesso del maestro nell’anticamera della stanza. Tra loro,
Giulio
Romano, il
Bembo, il Castiglione, l’Ariosto,
Michelangelo e
Benvenuto Cellini, e un ritratto di Schiavoni
senior. A farla da padrone è tornato il colore. Come nella migliore delle
tradizioni venete.
Terminata la “meditazione” davanti all’opera, per la sua intensità
equivalente a un soggetto sacro, s’incontrano una cinquantina di disegni di un
architetto mantovano anch’egli celebre alla corte zarista e semisconosciuto in
patria:
Silvio Dagnini (1867-1942).
A farlo lavorare fu stavolta Nicola II, che gli commissionò
non solo una centrale elettrica, l’ospizio per i mutilati della tremenda
guerra russo-giapponese e il primo garage per le automobili di corte, ma anche
mobili, sedie e altri arredi, dallo zar stesso approvati con una croce rossa
segnata a matita.
Urbanista nella miglior tradizione del
Rastrelli e del
Quarenghi, dunque, ma anche designer
razionalista molto apprezzato e chic. Ne sanno qualcosa i ricchi commercianti e
mecenati che si rivolsero a lui per avere le loro trendy ville padronali e
palazzine.
La Russia zarista amava gli italiani. E quella di
Putin?