Forchette gesticolanti, prelibri, macchine inutili, tavole tattili e un’infinità di oggetti possibili.
Bruno Munari (Milano, 1907-1998) è un metodo dell’invenzione che si concretizza in forme funzionali, è un’esercitazione teorica che diventa progetto, in una continua osmosi tra le regole e il loro sovvertimento. Nella concezione progettuale del lavoro creativo si gioca un’anarchica combinazione fra la regola e il caso, consapevole che
“il più grande ostacolo alla comprensione di un’opera d’arte è quello di voler capire”. Perché, mentre il pensiero pensa e si perde, l’immaginazione vede.
Nel lavoro di Munari, gli oggetti d’uso quotidiano sono trasfigurati e si liberano della loro abitudine. L’azione estetica è l’intervento di un curioso che vuole guardare e toccare: la sperimentazione forza il limite della circostanza e supera il convenzionalismo delle cose. Munari riprende le misure dell’infanzia e riscrive le istruzioni per l’uso del mondo, per tornare a stargli di fronte in maniera globale, per modificarlo, trasformarlo, smontarlo. L’arte produce “giochi da adulto” e l’uso del “vietato” come strumento dà luogo a esiti inediti e gonfia le possibilità d’uso delle cose La rivoluzione formale e linguistica di Munari si giova della confusione del limite per incrinare la riconoscibilità dell’oggetto. Senza mai cedere all’estetismo.
Il percorso espositivo prende avvio dalle analisi dello spazio illusorio: l’uso sfrenato ma metodico della fantasia si cala nello spaesamento delle situazioni ottiche. Le
Curve di Peano e i
Negativi-positivi, trascrizione percettiva di idee geometriche, ripropongono la programmazione cinetica. Poi la virtualità della quarta dimensione. Sventando ironicamente i richiami ai
Mobiles di
Alexander Calder, le
Macchine inutili sono ricerche
oltre la scultura, che si misurano con la plasticità di materiali precari e leggeri ricomposti in un caldo equilibrio geometrico. Lo statuto della macchina dev’essere l’inutilità, come luogo del riscatto dalla serietà e dal piattume funzionale. E infine la negazione concettuale della plasticità tradizionale, nelle
Sculture da viaggio. Da un cartoncino modellato proviene la decostruzione della bidimensione e l’invenzione di uno stato tridimensionale.
Per mettere in valigia, vicino a mutande e dentifricio, qualcosa che ricordi il proprio legame con il mondo culturale ed estetico.
Il
Libroletto del ‘93 rappresenta il punto d’arrivo di una ricerca sul libro, dalla comunicazione editoriale alla produzione ludica per bambini. Se, nell’iperstimolazione pubblicitaria, la grafica basata su forme piatte e colori pieni rende il libro oggetto d’attrazione, l’infanzia permette di sperimentare il libro nella sua totalità visiva, fisica e tattile. ‘Curiosare’ i libri e ricondurre l’oggetto di cultura a forme domestiche, promuovendo una frequentazione tattile col mondo. Secondo il gioco della moltiplicazione, della composizione, dell’incastro, i libri per bambini si riempiono di pagine sagomate, bucate, piegate e materiali insoliti.
La
lampada Falkland diventa emblema di un design dello straniamento, dove la qualità estetica si associa alla prontezza funzionale nella semplicità e nel minimo ingombro. La produzione di forme entra nella vita quotidiana come un oscuramento lieve dello spazio e tempo. Essenzialità, semplicità, rigore e ironia.
E anche l’attenzione diventa un’arte mutevole:
“L’uomo di Munari è costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle, sulle dita, sul sedere” (Umberto Eco).
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ottima la Sua recensione! ricordo solo che, anni fa, Munari vide dei miei fogli colorati dicendomi: ".. hai una creativa_mente!" e, sulla scia di questo ricordo, un mio ex libris che ho poi applicato ad un Suo testo.. Ma che Persona affascinante e intelligente!
con un po' di amarezza,
roberto matarazzo