Nella corposa selezione di opere che ripercorre la carriera di Giulio Paolini (Genova, 1940) non c’è una misura del tempo, piuttosto il suo contrario. “Del Bello ideale” fa sentire lo spettatore sospeso in un tempo che è quello della mostra e contemporaneamente non lo è. Al posto della cronologia, una nuova esperienza temporale viene generata, si tratta di un presente continuo, di un eterno presente circolare e introspettivo, tema su cui si sofferma sovente il curatore Francesco Stocchi. Forse, si compie il primo “viaggio di ritorno” di Giulio Paolini, da un’unica proposizione (Disegno geometrico, 1960), tutto in una volta, si dipana l’intera poetica in una dimensione sincronica in cui le linee convergono e, contraendosi, si proiettano verso l’indecifrabile. È la Mise en scène di un’opera continua articolata in tre nuclei concettuali portanti (Ritratto e Autoritratto, In superficie, Uno di due), impreziositi dagli interventi scenografici di Margherita Palli, su tre palcoscenici differenti (i primi piani e la sala rococò della casa-museo Carriero).
Giulio Paolini, del Bello ideale, 2018 – vista della mostra Fondazione Carriero, Milano – Ph. Agostino Osio – Courtesy Fondazione Carriero, Milano
Come in un “teatro della rappresentazione”, Giulio Paolini si aggira sospeso in un “vuoto pieno”, perché risuona di memorie e valori che chiedono di attraversare la soglia e manifestarsi in superficie, entra ed esce, con scarpe (In cielo, 2018), occhiali (Delfo IV, 1997) e valigia (Deposizione, 2018), senza lasciare traccia. L’autore è assente. Le immagini compaiono, immobili nella loro dimensione potenziale. L’opera, sottoposta allo sguardo e all’esposizione, fa il suo ingresso in scena, mentre l’artista si rifugia nell’atemporalità del suo studiolo, ricostruito dalla Palli alla maniera del caleidoscopio, ossia con lo sguardo rivolto al bello, in una molteplicità di visioni prospettiche. Alla prospettiva viene attribuito un valore simbolico, sia in chiave tautologica, nella riproduzione degli elementi fondanti del quadro – i fogli di carta bianchi, i tubetti di colore, la tela grezza e la tela rovesciata degli anni ’60 – sia, attraverso l’inquadratura, come pura rappresentazione. L’opera è lì, la cornice dorata e la matita di Finis Terrae (2018) si vedono, ma non si possono raggiungere né imprimere e sembra che il tempo, nella concezione di Giorgio Agamben, vada verso la sua fine, a meno che non “si guardi in profondità fino a dimenticare il soggetto”, sostiene Paolini. Il sipario si schiude appena per poi spalancarsi nello splendido e ultimo piano della Fondazione, eco e mimesi di un sala settecentesca, dove il tempo del mito e dell’archeologia Paoliniana è un’immagine che ruota su se stessa, che abita simultaneamente diverse zone temporali. Elegia (1969): un calco in gesso, impenetrabile sotto una teca in plexiglass, il cui occhio, ricoperto da un frammento di specchio, osserva e spinge lo sguardo immediato in una voragine misteriosa. La bellezza ci guarda, ci provoca e noi annaspiamo fino all’oblio.
Petra Chiodi
Mostra visitata il 24 ottobre 2018
Dal 26 ottobre 2018 al 10 febbraio 2019
Giulio Paolini, del Bello ideale
Fondazione Carriero
via Cino del Duca 4, Milano
Orari: da martedì a domenica dalle 11.00 alle 18.00 ingresso libero
Info: fondazionecarriero.org