Figure umane raccolte, conserte, silenziose, meditabonde. In posizione quasi fetale, a difendersi da tutto ciò che proviene dal mondo, ostile e chiassoso. Alberi che nascono e crescono nell’abbraccio dell’uomo. Nonostante tutto,
Jaume Plensa (Barcellona, 1955) non nega una speranza all’umanità.
La prima cosa che salta alla mente, guardando le sue opere, è il
Solo et pensoso di Petrarca: la ricerca della quiete, il vagabondare della mente alla ricerca del senso dell’esistenza. Ma, avvicinandosi, le grandi figure in metallo dell’artista catalano svelano il loro mistero. Sono segni grafici a comporre l’immagine, lettere saldate tra loro, mischiate, confuse. Un alfabeto maiuscolo, occidentale, a noi familiare, dà vita a una grossa testa. L
‘ombra proiettata sul muro, generata dalla confusione dell’assemblaggio di simboli, si trasforma nella figura indefinita di un cervello umano, con i suoi infiniti grovigli e tornanti. Il capo di Irma – questo il nome suggerito dal titolo – è sereno, nella sua non-connotazione; gli occhi che non ha sono idealmente chiusi, in una posa di estrema calma.
Un piccolo uomo, seduto, le ginocchia vicine al petto, è invece fermo su un piedistallo bianco. Su di sé porta i segni di un linguaggio universale, fatto di lettere rubate a tutti gli alfabeti del pianeta; una filigrana leggera ma profondamente evocativa e simbolica. L’unione delle culture, la dimostrazione che non possono esser solo differenze formali a dividere l’unità dell’etnia, che ognuno porta dentro di sé i semi di un mondo senza confini e barriere. Spazi d’indefinizione privano il corpo dei suoi tratti somatici, per accogliere quelli di chiunque guardi, per immedesimarsi nella ricchezza della diversità culturale.
Un figura umana, infine, è seduta in un angolo, su un mucchio di terriccio. In bronzo, solida, ferma, tra le sua gambe unite vive rigoglioso un ficus benjamin. È il frutto della madre terra, che lo regala ai suoi figli. Sbalzati della superficie corporea della figura sono i nomi delle città che popolano il mondo, il segno chiaro e distinto della forza vitale e unificatrice che la terra dona alla propria progenie. Neanche la corazza metallica che il genere umano crea intorno a sé, con gli infiniti conflitti che vessano il pianeta, può spegnerla e vanificarla.
Una mostra da evitare per chi non intenda guardarsi dentro, per chi teme l’introspezione e il confronto con se stesso. Per chi non ha interesse a capire che il vero motore del mondo altro non è se non chi lo abita e chi, con la sua esperienza unica, ne impreziosisce l’esistenza.