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C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato”. Inizia così la nona delle
Tesi di filosofia della storia scritte nel ‘40 da Walter Benjamin poco prima di morire. È nella descrizione dell’angelo dalle ali distese -a cui fa riferimento il titolo della mostra- ispirato dalla visione di
Paul Klee la sintesi della spinta rivoluzionaria dell’intellettuale tedesco poco prima della tragica fine, avvenuta nel tentativo di abbandonare la Francia invasa dai nazisti.
Per Benjamin, l’angelo della storia, così come metaforicamente lo stesso storico, guarda al passato e quindi si volge indietro per impossessarsene e, in un certo senso, possederlo e tradurlo in un secondo tempo in atto politico. In questo modo compie un’azione di recupero, per mettere a punto un riscatto definitivo; va incontro al futuro, ma dandogli le spalle. Anche
Ulrich Egger (San Valentino alla Muta, 1959) recupera i resti di un mondo industriale, con la diversa finalità di rigenerarli e riportarli a nuova vita.
L’immagine di Klee evocata da Benjamin rimanda a una prospettiva dell’avanzare della storia in cui il progresso non si presenta in modo univoco, piuttosto come un susseguirsi di eventi e cause che distorcono volutamente la realtà, per renderla più accettabile. La tempesta descritta da Benjamin, che spinge l’angelo verso il futuro, diviene così metafora dell’avanzare della civiltà e si rispecchia in quella potenza di ricostruzione architettonica che colpisce nelle opere di grandi e piccole dimensioni dell’artista altoatesino, sapientemente allestite tra i giochi di pieni e vuoti della galleria.
Gli accumuli di calcinacci, i detriti, le rovine contemporanee, il cemento e la materia di un mondo ormai passato, spoglio, dove non c’è presenza umana ma s’impone la
rovina come soggetto strutturale, ricreano un universo sempre in tensione e si ricompongono magicamente costruendo una nuova
Storia post-industriale. L’edificio diventa scultura, uno spazio volumetrico e anonimo, nelle rappresentazioni dinamiche di Egger; si anima di una nuova vitalità dirompente, senza tuttavia mai perdere il suo equilibrio. Il dato scultoreo s’insinua, attraverso l’elemento aggettante, all’interno dell’immagine, contribuendo alla sua ulteriore composizione, contaminandosi paradossalmente con la fotografia di base, creando con essa un connubio di grande forza, che diventa un’armonia di forme e toni.
Il risultato fuoriesce volutamente dalla cornice del quadro, mostrando un inedito paesaggio architettonico dove la reliquia industriale va ad assumere un nuovo connotato semantico e ulteriormente concettuale, e si ricompone nella riedificazione. Un discorso estetico che parte dal disfare per poi ricostruire, che guarda dritto al tempo che verrà tenendo sempre un occhio rivolto a ciò che è stato.