La violenza è stata fin dall’antichità oggetto di rappresentazione artistica, da scene mitologiche a cruente rappresentazioni di battaglie, a scorci infernali. Quello che della violenza interessa ad Alejandro Vidal (Palma de Mallorca, 1972, vive a Barcellona) è osservarla da un punto di vista estetico e nello stesso tempo critico.
Come esponente dell’ultima generazione spagnola da anni analizza le molteplici implicazioni della cultura della paura che affligge la società in cui viviamo. Per Vidal lo scopo è di creare un legame tra la società e il nostro mondo prima che sia troppo tardi e troppo difficile. C’è infatti il rischio che la società non riesca più a decifrare i nuovi codici con cui il mondo si muove e venga travolta dagli eventi e dall’inerzia. L’odierna risposta sociale ai conflitti è il punto di partenza per l’indagine artistica. “E’ tempo di focalizzare l’attenzione “ sostiene infatti l’artista “sulla società nel suo complesso. Ed analizzare tutte le conseguenze sociali ed economiche della tecnologia, dell’urbanizzazione, delle campagne publicitarie, della violenza simbolica e non, poichè la vita odierna ha delle caratteristiche specifiche mai viste in passato che ci costringono a relazionarci al presente sempre più rapidamente e con uno sguardo ad ampio raggio”.
Tramite video, installazioni e fotografie Vidal cerca di riempire un vuoto, quel divario che si è venuto a formare tra la società e il mondo nel suo evolvere, un buco nero derivato dalla velocità inaudita degli eventi e delle comunicazioni e dalle ritardate reazioni dell’individuo a questa corsa. Secondo l’artista, la light culture in cui viviamo, fatta di caffé decaiffeinato, di sigarette senza tabacco e cioccolato senza zucchero è caratterizzata da un’estetica ben precisa che ha direttamente a che fare con la violenza (dalla burocrazia, al messaggio pubblicitario, alla guerra), anzi ne è il frutto.
Le grandi fotografie in mostra immortalano scene ordinarie di scontri tra tribù urbane. Le pose dei soggetti derivano dai manuali di arti marziali e di autodifesa, ma il tipo di composizione è di sapore classico. Non si tratta di un lavoro realistico, gli scontri tra i corpi vengono realizzati con la staged-photography, per cui l’effetto è glaciale e allo stesso tempo di grande ambiguità. Questi individui sembrano mettere in atto una lotta inevitabile e a tratti voyeuristica, in cui ogni dettaglio è stato attentamente calibrato. L’installazione proietta lo spettatore in un’atmosfera scura, da rave, in cui tra un sacco a pelo e un poster di Bruce Lee sul tavolo, taniche, bottiglie di ammoniaca, cartoni di latte Parmalat (con chiaro riferimento al tracollo finanziario che vi sta dietro) scorrono le immagini dei video che condensano la violenza latente dei concerti di musica trash metal. La serie di disegni volutamente sporchi, schizzi di volti tratteggiati a carboncino su cui sono state applicate strisce dello scotch nero da mettere intorno alle finestre per difendersi da attacchi chimici, satura l’ambiente di presagi funesti.
irina zucca alessandrelli
mostra visitata il 3 giugno 2004
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