Al centro di mondi dimenticati, dove chi si guarda in faccia non si lascia vedere, dove il tempo non cambia le cose e dove gli oggetti nascondono il proprio posto, lì comincia
Presumed Reality. Una mostra che accomuna fotografie e installazioni sulla falsariga dell’invenzione, attraverso la luce della diversità. Una doppia personale che non ha il pregio di presentare un solo punto di vista coeso, ma che conserva e rielabora, al contrario, le virtù dei propri opposti. Un’esposizione il cui allestimento permette di accomunare più fini e più livelli di significato.
Protagonisti sono due artisti che raramente calcano le scene delle gallerie italiane:
Ebbe Stub Wittrup (Aarhus, 1973; vive a Copenhagen) e
Benjamin Bergmann (Würzburg, 1968; vive a Monaco di Baviera).
Presumed Reality nasce a partire dalle mosse di una personale, peraltro di successo, del fotografo danese, che aveva scelto il medesimo titolo. Wittrup espose nel 2007 alcune fotografie, stampate in medio formato, che riprendevano una serie d’una ventina di diapositive degli anni ’50: foto-ricordo di una spedizione di turisti, fra montagne, ghiacciai e passi in cordata.
Anche a Milano Wittrup interviene quasi direttamente sulla composizione delle immagini, reinterpretando quelle foto dove le pose erano composte, d
ove i colori degli abiti erano ricercati e dove, forse, dietro le cancellature dei pochi volti a disposizione qualcuno aveva sorriso. L’idea della sfumatura de-generatrice del reale crea in questi lavori un tremolio dei contorni che mischia la fotografia alla pittura, l’immagine alla sua icona, e
Thomas Ruff a
Nathalie Djurberg. Offrendo una realtà diversa, presunta, rarefatta.
I soggetti immortalati nella spedizione sono appena accennati: fantasmi che non hanno più i tratti del volto. Qui ogni figura è una sorta di macchina attivatrice della visione, collocata in un paesaggio che sovrasta l’uomo senza più un viso e dunque senza nome.
L’idea dell’effimero sprigionata da
Presumed Reality riesce a trasmettersi in parte anche nell’opera di Bergmann, artista che rende testimonianza della realtà come se le cose dovessero rappresentarne una lista; un breve elenco che non ammette
déjà-vu.
I lavori di Bergmann sono un buon punto di mezzo tra scultura, invenzione, installazione e teatro. L’artista stesso si toglie dal reale che lo circonda, portando con sé alcune parti del proprio vivere. Attratto dalla forma degli oggetti e soprattutto dal suono che emettono, li scardina dalla loro funzionalità, per renderli accenni di estetica.
Al modo di un tuttofare, costruisce falciatrici, altoparlanti, scenografie, archi e architetture come piccoli sistemi destinati a subire l’effetto del tempo; strutture appena accennate, che si consumano nell’attimo stesso in cui hanno assolto il loro fine propriamente apotropaico.
Wittrup e Bergmann, in questa mostra, proseguono paralleli come due binari. Dove il treno della realtà tanto unisce quanto divide.