La galleria Nepente si contraddistingue in quest’occasione per una scelta espositiva raffinata, in cui l’esibizione della collezione fotografica appena rilevata si limita a quaranta esemplari selezionati. All’interno di spazi neutri e asciutti, è creato un percorso rarefatto, scandito da pause riflessive, adatto al soggetto proposto. La mostra denota comprensione e rispetto nei confronti dell’opera di
Vittorio Sella (Biella, 1859-1943), personaggio che per la particolare vicenda, innanzitutto umana, non permette facili assimilazioni alle leggi interne del mercato artistico. Difficile infatti classificare Sella come fotografo tout-court. La nascita in un ambiente progressista, quello dell’imprenditoria piemontese del secondo Ottocento, lo spingerà all’ambizione di primeggiare in qualsiasi attività, di formarsi come personalità completa.
È in tale prospettiva superomistica che va inquadrata la sua attività artistica. Coniugando la passione per la fotografia ereditata dal padre Giuseppe Venanzio con quella per l’alpinismo derivata dall’illustre zio Quintino, Vittorio affronterà l’esplorazione delle Alpi prima, delle vette extraeuropee poi. Una sfida contro i propri limiti e quelli imposti dalla natura, vinti a furia di accumulare competenza tecnica e spessore umano. Il soggetto che si ripete in trent’anni di produzione, l’ambiente alto-montano colto nei suoi aspetti più duri e intransigenti, non è testimone passivo di un reiterato auto-compiacimento contemplativo.
Le fotografie sono la risultante di un’interrogazione continua sulla possibilità dell’uomo di conoscere con completezza un mondo magnifico ma sfuggente, a tratti ostile. Sella sceglie il difficoltoso tempo delle nevi, dei ghiacciai eterni come oggetto elettivo del proprio interesse, piuttosto che attenersi al già collaudato alpinismo estivo di bassa montagna. È una mentalità scientifica quella che lo spinge all’esplorazione di territori vergini, coniugata a una sensibilità ben educata dagli studi di disegno.
Sella ci restituisce immagini che sono primariamente testimonianze di un rapporto esistenziale dell’uomo con l’esterno, di presa potente sulla realtà, ottenuta attraverso l’abnegazione e il sacrificio. Ai piedi delle alte cime, l’uomo è l’unità di misura dell’impresa, elemento piccolo e marginale rispetto all’insieme, eppure presente.
La resa dei dettagli è massima, l’uso del banco ottico condiziona le fotografie al piccolo formato ma, contemporaneamente, permette un effetto plastico robusto. Per cui lo spettatore prova la sensazione tattile di poter accarezzare i crepacci, sentirne le asperità piuttosto che rimirarne lo sterile gioco ottico dei contrasti. Non è la veduta perfetta di
Friedrich, una domanda lasciata in sospeso nel vuoto. È la presenza attuale dell’Altro, sconosciuto e criptico. Ma pur sempre lì, condensato in quel formato angusto, offerto all’indagine umana.