L’arte guarda ad Est. E ne ha ben donde se i risultati sono quelli proposti dalla galleria Federico Luger, che presenta Igor Eskinja (1975, Fiume). Un artista che evita volentieri di darsi, come vorrebbe la consuetudine nei Paesi in via di sviluppo, all’azione politica strictu sensu, per concentrarsi invece su un’indagine che parte dallo spazio. Uno spazio rivisitato e destrutturato tramite lo straniamento delle regole della visione. Operato sul piano della composizione e grazie all’utilizzo di materiali improbabili, attraverso i quali ridurre all’osso la sostanza, con un atteggiamento ironico e sovversivo.
Emblematica in questo senso l’installazione centrale della mostra, un “tappeto” arabescato i cui orpelli e contorni sono costituiti, direttamente sul pavimento, da depositi di polvere. Ma anche le sue fotografie -scattate in Musei in chiusura da un Igor Eskinja introdottosi clandestinamente- in cui il soggetto (la pinna di uno squalo in un lavabo, sedie bidimensionali di carta adesiva che acquistano, nell’immagine, spessore) perde ogni contatto con la realtà. Per assumere la conformazione finale tramite un sistema di giochi prospettici, ottenuti dal calcolo matematico dei rapporti tra spazio fisico e profondità di campo. Creando illusioni che rimandano al dibattito sull’icasticità –dalle teorie di Pierre Francastel ai deliri di Maurits C. Escher– con la volontà di riportare il discorso ad un livello filosofico. Ovvero, le cose esistono perché noi le vediamo. La realtà, quindi, è fittizia.
Così l’artista, depositario di questo segreto, imbarca lo spettatore -per dirla con Alfredo Sigolo, autore del testo in catalogo- sulla “barca di Truman”. Mezzo con cui attraversare il mare delle domande capitali. Quelle che ogni tanto ritornano a galla, insinuando nel riguardante il senso del dubbio.
Le opere di Eskinja sono gli indizi che Truman Burbank raccoglie nel film The Truman Show, e che portano al successo della fuga finale. Testimoniano la fallacia della visione, la possibilità dell’esistenza di altri sistemi di riferimento, dove tutto è diverso da come normalmente lo conosciamo, ribaltando così il valore dell’esperienza. Si sprofonda nella sensazione di vivere su un palcoscenico. Impressione a cui i sensi offrirebbero l’illusione della tangibilità delle cose, fungendo da placebo ai timori più reconditi. Perché “la realtà in cui viviamo –spiega Sigolo- non è molto diversa da quella di Truman; alle cose che ci circondano ci aggrappiamo come ancore di sicurezza”.
Igor Eskinja, invece, scopre il velo di Maya. L’inganno è dichiarato. Il mondo è virtuale. Fatto di assenze e dissolvimento. Le sue sedie sono astronavi. I tappeti di polvere volano.
santa nastro
mostra visitata il 15 novembre 2005
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c'è chi ci scommette forte......
Ma perche' la galleria e' sempre chiusa??
Ma che modo di lavorare e' questo??!!!