La prima volta che si ha a che fare con la pittura di Marina Calamai (Arezzo, 1962) bisogna fare attenzione. I giudizi critici, le percezioni estetiche, le misurazioni dei formalismi e i rudimenti performativi potrebbero finire gambe all’aria in men che non si dica. Bisogna stare in guardia, mai lasciarsi prendere troppo dall’acquolina, mai dalla bellezza molecolare dei colori, mai farsi catturare dall’aura brillante che circonda i suoi desideri sublimati a soggetti pittorici. Altrimenti si finirebbe per considerare i lavori della Calamai delle tavole dipinte, guarnite ed accesissime, mere sfilate di elementi decorativi, niente di più che leziosissime leccornie. Se ci si lascia prendere dal gusto e non dal senso critico, senza fare ricorso al giudizio ponderato ed estetico, attorno agli occhi prenderebbero ad aleggiare, a mo’ di girotondo tentatore, luccicanti bavaresi, parfait, meringate, semifreddi, sacher, cheese cake e ogni altro tipo di golosità. Ma niente di più. Niente che abbia a che vedere con un’autentica spinta artistica. Per fortuna però, l’apparenza spesso inganna.
E così Marina Calamai torna con una personale. A Milano espone nuovamente quel che da anni, da quando ha dovuto lasciare da parte i dolci per una pericolosa iperglicemia, attira il suo modo di dipingere, ma stavolta facendo un passo indietro. Non è dall’occhio che partono i desideri, ma è da prima dell’occhio che cominciano le ricerche compulsive verso gli oggetti diabolici (quelli dei desideri). È quindi la chimica fisiologica interna che prepara la visione selettiva esterna.
I lavori esposti sono per lo più dipinti ad olio e tavole decorate a tecnica mista, sulle quali si slunga la ricerca immaginifica e visionaria che spinge la Calamai ad interrogarsi sulle origini dei cromosomi della golosità. Le opere, quasi tutte di grandi dimensioni, rappresentano una sorta di carosello molecolare che rievoca, in chi osserva, degli impulsi di tipo ludico-magnetici. Questa volta, i soggetti non sono più solo le sfumature zuccherine e gelatinose dei dolci da gourmant, da anni dipinti in mille forme e colori diversi. Questa volta, alle pareti della galleria sfilano enormi iridi, composte rievocazioni di tessuti epidermici e scansioni particolari del corredo cromosomico. A farla da padrone sono anche curiosi elettrocardiogrammi e pentagrammi fruttati. Come a ricordare che ogni organo percettore è dotato non solo di senso, ma anche di ritmo. Ritmo che converge nel respiro e promuove una narrazione reattiva, un dialogo fisiologico che passa dal macroscopico al microscopico senza per questo fare appello alle diversità di scala. Da questo tipo di rappresentazione deriva che le funzioni corporee scandiscono il ritmo del quotidiano e non viceversa.
Dunque, se decideste di prestare mente alle opere di Calamai, fate attenzione. Staccate corpo e mente l’uno dall’altra, non fatevi abbacinare dalla perfezione formale delle fette di dolci e lasciate perdere quel rigore che cattura le code dei sensi di colpa. Lasciate ancora da parte quelle piccole ossessioni rimaste intatte, recuperate al fondo di chissà quale peccatuccio di gola. E infine fate domande. Chiedetevi, ad esempio, da dove nasca il gonfiore ridanciano dei corpi di Fernando Botero. In queste composizioni troverete una risposta. Consolatoria.
ginevra bria
mostra visitata il 24 novembre 2006
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