Se la fotografia fosse destinata a rimanere un mezzo univoco, utile solamente alla stasi della rappresentazione, probabilmente il lavoro di
Barbara Probst (Monaco, 1964; vive a New York e Monaco) perderebbe il proprio intrinseco segno. Diventando un dettaglio visivo noioso e inalterato, seppur scisso in più parti.
Gli scatti della fotografa tedesca, se venissero considerati come
ambienti fermi, rimarrebbero dunque attimi congelati e lasciati al tempo di qualche nanosecondo. Figure abbandonate alla parete e al loro solipsistico lirismo. Ma, fortunatamente, quando impugna la macchina fotografica, Probst riesce a creare qualcos’altro. Un
quid diverso. La fotografa tedesca prepara infatti, attorno a ogni scatto, un lungo corteggiamento dell’obiettivo, attraverso lo sviluppo di una narrazione forte. Il suo risulta così essere un codice linguistico che restituisce all’immobilità dell’unico set fotografico di riferimento un’ipnotica direzione di vortice. In questo modo, ogni raggruppamento iconico diventa anche uno sfasamento temporale.
Alla Galleria De Cardenas, in occasione della sua prima personale italiana, Barbara Probst disseziona e disperde ogni momento catturato dalla macchina fotografica. L’autrice, usando una serie di dispositivi per il radio-controllo, ritrae lo stesso istante da diverse angolature, generando immagini composte da misure, distanze e punti di vista differenti.
Il risultato è un linguaggio pulito: gli sfondi sono nitidi, i contorni dei volti e dei corpi sono appena accennati, gli sguardi sono concreti e i colori non risultano mai eccessivi, violenti. Eppure, ogni scatto racchiude in sé una prospettiva così illogica e impensabile, rispetto alla direzione della presa, che riesce a far traballare il concetto di verità fotografica.
Alle pareti quasi domestiche della galleria, Probst sceglie di riportare in vita tempi e spazi fotografici che altrimenti rimarrebbero residui e inesplorati. Per farlo utilizza modalità che appartengono ad ambiti mediatici differenti. Se alcune fotografie, ad esempio, ricordano la posa del cinema, altre raccontano ritratti di volti, altri ancora ripropongono la sfrontatezza del reportage di moda e altre, mischiandosi in perfetta sintonia con le consimili, sono immagini immerse in ambienti esterni (spazi urbani come Central Park, il tetto di un grattacielo o un aeroporto). I numeri che contraddistinguono i ritratti alle pareti trattano le immagini come se fossero catturate in conformità a un loro stato inconfutabile e preordinato di esistenza.
In qualità di osservatore, chiunque, nonostante la leggera monotonia dell’autoreferenzialità di questa personale, sarà in grado di muoversi oscillando in posizioni innaturali che ripropongono gli assi di spazio e tempo, come se fossero vere e proprie esperienze prospettiche. La costante oscillazione dell’obiettivo, infatti, in questo caso non ha la funzione di destabilizzare ma, al contrario, ha l’obbligo di spingere l’occhio dove ancora non gli era stato indicato di mettersi a guardare. Donando la quiete della visione.