Il paparazzo oggi sa di sporco. Spesso suscita antipatia, sempre scalpore. O almeno dovrebbe, se sa fare il suo mestiere. È il grado zero della fotografia. Talvolta neppure fotografa: va a caccia di scandali e manda altri a fare il suo “nobile” lavoro. Del resto, fin dalle origini la fotografia ha avuto una natura un po’ ambigua. In bilico fra arte e tecnica, oggettività e soggettività. E il paparazzo oggi è la declinazione peggiore cui ha portato questa dicotomia.
Ma come per tutte le cose, anche per questo settore un tempo è esistita un’età dell’oro, che ha visto in
Arthur Felling, in arte
Weegee (Lemberg, 1899 – New York, 1968) il suo simbolo e uno dei suoi padri fondatori. L’importanza di questa figura è data non solo dal seguito che ha avuto sui tanti fotogiornalisti degli anni ‘50 e ‘60 che hanno ereditato una simile audacia e sfrontatezza, ma soprattutto per il modo di vedere allo stesso tempo sfacciato e indifferente che ha connotato la più importante fotografia americana dei decenni seguenti,
quella di
Robert Frank e, in particolar modo, di
Diane Arbus.
Purtroppo, a distanza di settant’anni la brutalità e allo stesso tempo la novità di questi scatti fa fatica a farsi sentire. Eppure è un problema del nostro tempo, non certo delle immagini di Weegee. Del fatto, ormai scontato, che tutto è più veloce e, quindi, invecchia prima. Se oggi “eclatante” è altro, rimane comunque il fatto che Weegee non solo è stato uno dei primi, ma è stato qualcuno che ha contribuito a deviare, almeno parzialmente, la direzione dello sguardo rispetto ai canoni prestabiliti.
Le sue fotografie oggi sono “brutte”. E lo erano anche all’epoca. Non è un caso che uno dei fotografi più conosciuti di New York fosse stato escluso dalla mostra fotografica più importante della città,
The Family of Man, curata da
Steichen al MoMA. Eppure in quella mostra c’erano proprio tutti i fotografi, o quasi, anche molti che oggi sono entrati nell’oblio. Anche Robert Frank, con una sola immagine però, ché il suo lavoro in fondo era un po’ troppo grigio e forse anche un po’ troppo triste.
Con quell’ottica mondiale e populista, effettivamente, l’opera di Weegee aveva poco a che fare. Fotografie crude, talvolta spietate, talvolta semplicemente irriverenti. Per non parlare di quel flash orribile, messo a punto da pochi anni, che ha portato alla luce con indecenza qualsiasi cosa. Tutto ciò che accadeva a New York negli anni ‘30 e ‘40. Il più delle volte di notte, quando tutti dormono e accadono le cose peggiori. Ma tanto, oggi, un morto ammazzato senza sudario non sconvolge più. E Weegee nemmeno.
La mostra descrive con precisione lo “stile” del fotografo -anche se mancano alcune delle sue immagini più celebri- e racconta una città che è andata costituendosi sempre più come icona e stereotipo nell’inconscio collettivo. L’importante è sapere che Weegee ha contribuito, anche se in piccola parte, a mostrarci quella New York senza mezzi termini e senza compromessi che oggi chiunque è in grado di raccontarci.