La cosmogonia ebraica vuole che Dio, durante la genesi, prendesse del fango, lo formasse e gli infondesse con il respiro la vita, “facendo l’uomo a propria immagine e somiglianza”. L’ipoteca della creazione, della forma già contenuta in potenza dalla materia, è stata d’intralcio a molta plastica, che ha operato una vera e propria secessione rinunciando, come Baudelaire sull’uscio di un bordello, all’aura, o meglio al vaticinio. In altre occasioni, invece, le ha dato le ali per librare. La scultura di Bärbel Schulte Kellinghaus (Stoccarda, 1965), tedesca alla sua prima personale a Milano, è del secondo tipo. Non rinuncia a ruoli demiurgici. Desta teste di ceramica, grandi volti in pioppo, imponenti ed inquietanti nella propria fissità. Esseri umani innestati gli uni sugli altri. Smalta terracotte con tinte cupe e drammatiche –rosso sangue, bianco accecante, verde muschio- presagio di una tragedia in procinto di consumarsi.
Bärbel si dà alla produzione sfrenata di corpi da animare. Con vocazione alla sperimentazione, insieme a lucida follia. Si coglie nel suo mondo antropomorfo, libero dalle leggi della fisionomica, in cui ciò che conta è il contorno, fatto di organismi informi ed ibridazioni, un pantheon di riferimenti sregolato. Dalla glittica gotica, in cui la fusione di elementi antropomorfi e fitomorfi, è un leit motiv, alla figura del Golem –materia grezza- derivato dalla mitologia giudaica. Golem, infatti, titolano cinque teste in terracotta, in cui i tratti del volto diventano irriconoscibili, a difesa dei concetti di cui si fanno portatori. Il gigante d’argilla, detentore di morte e verità, nasce ipoteticamente solo da mani magiche, quelle dello scultore. E’ soldato mercenario di chi gli dà vita, un fantoccio primitivo, che la letteratura romantica in primis, la cultura postmoderna e la fantascienza poi, evolveranno in mostruosità e manichini.
Nei robot, di tanta cinematografia cult, da Fritz Lang in avanti, fino alla manipolazione genetica dei giorni nostri. Marionette, che nella migliore tradizione favolistica, dal Pinocchio di Carlo Collodi al Blade Runner (1982) di Ridley Scott fino ad AI (2001), firmato Stanley Kubrick e Steven Spielberg, prima o poi mutano da materia a sentimento, organizzando la rivolta. E, inevitabilmente, restano sconfitti. Da carnefici diventano vittime, e con sguardo implorante pongono la domanda esistenziale, che appartiene ad essi come a tutti gli uomini, di tutto il mondo, di ogni epoca: “Did I request thee, Maker, from my clay/ To mould me man?” (Mary Shelley, Frankenstein, 1817)
santa nastro
mostra visitata l’8 ottobre 2005
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Davvero pregevole l'articolo... i miei complimenti e la mia ammirazione.