Era il 1963 quando Dan Flavin (New York, 1933-1996), allora giovane disegnatore, compì un gesto decisivo per la sua carriera e fondamentale per l’arte del dopoguerra: posizionò diagonalmente sulla parete del proprio studio un tubo al neon, creando la prima di una serie ininterrotta di opere eseguite con questo materiale.
La fortuna dell’artista non fu immediata, come testimonia un recente libro (It is what it is – writings on Dan Flavin since 1964, Thames & Hudson, 2004) che raccoglie testi e recensioni dal 1964 ad oggi: scorrendoli si nota la difficoltà da parte dei critici persino nel trovare le espressioni adatte per descrivere opere così innovative; e difficile era inscrivere Flavin in una delle correnti artistiche allora in voga. Si trattava certo di Minimalismo, ma nonostante il rigore e l’austerità le opere di Flavin possedevano una carica di emozionalità e di piacevolezza sconosciuta a colleghi –pur stimati dall’artista- come Judd o Stella.
Uno dei primi collezionisti di Flavin fu proprio Giuseppe Panza, che nel 1990 vendette molte delle opere al Guggenheim. Una parte di esse tornò in prestito permanente a Villa Panza, mentre ora altri sette lavori provenienti dal Guggenheim e uno della collezione privata Panza costituiscono la parte temporanea della presente mostra.
Fra questi, alcune opere storiche, come Untitled (to Henri Matisse) (1964), che omaggia il grande artista affiancando luce rosa, gialla, blu e verde e facendo interagire i colori come e forse più che nei quadri di Matisse (qui il colore si trasferisce anche sulla superficie corporea dello spettatore). Altro lavoro fondamentale è An artificial barrier of blue, red and blue fluorescent light (to Flavin Starbuck Judd) del 1968, ventuno rettangoli di luce fluorescente blu e rossa che costituiscono una vera e propria barriera di 14 metri che impedisce al visitatore di percorrere liberamente la stanza.
Il pezzo più importante della mostra è The nominal three (to William of Ockam) (1963), sia per l’importanza storica sia perché dedicato al principale fra i numerosi riferimenti culturali di Flavin, il filosofo nominalista del XIV secolo Guglielmo d’Occam. Questi proclamò che “non debbono essere create più entità del necessario”: ed ecco che l’opera di Flavin consiste di tre gruppi, rispettivamente di uno, due e tre tubi di essenziale “luce fluorescente naturale”.
Le opere della collezione permanente, ospitate nei rustici della Villa, dedicano una stanza ad ogni lavoro: lo spettatore esperisce in tal modo una vera e propria immersione fisica nel colore, particolarmente suggestiva nel caso della luce ultravioletta. Questo tipo di esposizione –peraltro criticato a suo tempo dall’insigne critica Rosalind Krauss- enfatizza la carica emozionale insita nei lavori dell’artista e crea una vera e propria arte ambientale, in cui lo spazio è creato dall’opera. Le stanze sono unificate dal Corridoio Varese, opera site-specific spettacolare anche perché accesa e spenta ad intermittenza.
La rivoluzionarietà di Flavin consiste nella perfetta corrispondenza fra il materiale e l’opera; si tratta anche di una riattualizzazione del ready made, in quanto Flavin usava solo neon disponibili sul mercato (nelle misure disponibili e nei colori standard) e non commissionati. Vengono fuse in un’unica opera disegno e pittura (il tubo come linea e la luce come colore), scultura ed architettura (un Flavin interagisce con il luogo in cui è esposto e talora lo ricrea ex novo).
E’ da ricordare che una personale di Flavin è contemporaneamente in atto anche presso la National Gallery di Washington, e che la mostra varesina rappresenta un’ottima occasione per visitare l’installazione permanente creata poco prima della morte dall’artista presso Santa Maria in Chiesa Rossa a Milano.
stefano castelli
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