Bianco e nero, un piede quietamente appoggiato su una pietra. Volti femminili, uno sull’altro. Morbidezza dei lineamenti, astrazione della composizione. Grandi visi colorati, al centro dell’attenzione un oggetto, la luminosità di un anello, un orologio o un bracciale. Nella mostra di James Moore, opere degli anni ‘60, diverse le linee di ricerca accostate, come per assaggi, poi alcune copertine di Harper’s Bazaar e ancora indagini estetiche di pure linee, foto lungo la strada, incontri con persone di rilievo internazionale, Beckett, Mastroianni, Cary Grant…
Di particolare fascino alcune immagini come Corsetto, morbido corpo sdraiato, quasi ricordo di visione infantile, una misteriosa femminilità, o come Antico, un semplice profilo di sapore trascorso, con un candido copricapo, forse memoria di un quadro fiammingo. Gli sguardi delle modelle per lo più distanti, una bellezza distaccata, i pensieri altrove. Il corpo riscoperto come scansione di forme o magari anche impacchettato in un chiaro sacchetto da cicogna.
Seguire con lo sguardo e con la mente la mostra di Moore significa lasciarsi catturare da uno speciale fervore di ricerca. Perché quel Marvin Israel, direttore di Harper’s Bazar che intuisce le potenzialità di questo fotografo sfogliando il suo portfolio e invitandolo a lavorare per lui è quell’amico, collaboratore di Richard Avedon dalle tante avventure estetiche comuni: la rivista, le mostre ed i libri.
Così scriveva Avedon -di cui Moore è stato assistente (e se ne riconosce forte l’influenza, specie nell’utilizzo dello spazio, nell’eleganza, nell’audacia della composizione, nel raffinato valore visivo)– a proposito di Israel: “Eravamo perfettamente uniti nei nostri traguardi e nella convinzione che dovunque una foto apparisse, su una parete o su una pagina o un tabellone, fosse un avvenimento”. Nessuna casualità dunque: ogni foto frutto di una scelta precisa, capace di rapire lo sguardo, trattenerlo, farlo sostare.
Una lezione che Moore ha fatto sua. Si coglie meno, nell’esposizione milanese, l’idea del discorso, delle foto che, poste vicine, vanno inevitabilmente a comporre un racconto. Un incontro comunque importante, in una delle gallerie milanesi più attente al mondo della fotografia. E un vero incanto è l’immagine scomposta, parti a fuoco o solo ombre, utilizzata anche per il prezioso invito. Giochi di linee, di segmenti, di stoffe, di colori, con le scarpe, le gambe, le mani. Creazioni fuori dal tempo: anche per la moda di oggi.
valeria ottolenghi
mostra visitata il 19 novembre 2004
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