In occasione
della sua seconda personale milanese, l’incantatore
Ray Smith (Brownsville,
Texas, 1959; vive a New York e Cuernavaca) espone opere realizzate nel solo
2009. Acquerelli, lavori misti su carta e due tavole strizzano l’occhio, come
sosteneva Emanuele Beluffi, “
al movimento lowbrow americano,
l’universo pop surrealista dei Gary
Baseman, Camille Rose
Garcia, Tim Biskup, Mark Ryden, Todd Schoor, Jeff Soto, Joe Sorren, riservandogli però un
posto a parte per le venature scabre che potrebbero ricordare un Michael Bevilacqua o un John John Jesse”
.Invero, fra esoterismo ed essoterismo, confini smarcati e
manierismi ancora da smussare, Smith si permette di divagare sull’austerità del
mezzo-pittura per sottolineare, invece, un sopra-realismo barocco e dionisiaco.
Ridondante e abbondante, Smith
provoca le opere sulle quali agisce, come se volesse
schernire quel pensiero inarrivabile che, a volte, gli sbarra la strada, a metà
tra reale e fantasia. Nelle sue composizioni, al contrario, hanno la meglio la
volontà e linearità del mettersi a nudo, tra simboli e oggetti che rientrano
negli accessori del mito, dettagli che alla lunga non possono che avere come
conseguenza un’impotenza generalizzata sulla
cosa.Lo sguardo dei volti umani ritratti è determinato sullo
spettatore.
E tanto più il corpo diventa elemento, luogo di deformazione, tanto
più la parola inserisce il linguaggio umano nel miracolo della figurazione,
citando versi degni di una moderna pizia, per essere tradotti in
senso.
Oblunghi, come passati attraverso una sfera di cristallo,
e precorritori, come adepti di un rito, i soggetti della rappresentazione fanno
capo a un teatro formale che non si ferma dietro alcun sipario, neppure quando
la platea dell’occhio risulta vuota. La narrazione applicata, cornice che
comprende lo sciamanesimo, la rivelazione visionaria, gli stati alterati di
coscienza, l’alchimia, la chimica della stregoneria, e, seppure in parte, la
coercizione dell’esoterismo, ispira Smith spingendolo in direzione
dell’iconografia texana; traccia mnestica che accende i colori degli acquerelli
stesi su carta francese.
Dalla parte della tecnica compositiva, invece, campiture
sdilinquite e pennellate rapide (quanto debordanti) permettono al riquadro di
immortalare anche una scena che potrebbe presentarsi parallelamente,
all’esterno, a fianco al lavoro esposto. Invisibile. Il piano orizzontale sul
quale, prevedibilmente, Smith dipinge, e la velocità calligrafica con la quale
l’artista si affranca dalla propria creatura-creazione, conferiscono all’intera
mostra una buona carica istintiva che potrebbero, in parte, compensare
l’eccessiva schizofrenia dei mondi mostrati.
Dare la giusta forma anche a
una breve serie di opere su carta di riso fornisce inoltre l’occasione a Smith
di far conoscere il lato complementare di pittura e illustrazione. Lato che
spesso, in questo periodo, soffre sotto l’eccessivo, orientaleggiante fenomeno
del
déjà vecu.