Alfred Hitchcock era ossessionato dalla vertigine. Ha passato una vita a spiare attraverso la macchina da presa, cercando la sensazione della spirale e cercando di ricrearla. La vertigine, quella che accerchia la testa e solleva i piedi da terra. Poi nel 1958 girò Vertigo (La donna che visse due volte). Scoprì che grazie ad un gioco di lenti, una veloce sovrapposizione, zoom-in / zoom-out in rapida dissolvenza, si poteva sedere davanti alla tv e nello stesso tempo trovarsi sull’orlo di un burrone, o meglio, di un tetto.
Il cinema e la sua storia tornano con prepotenza quando ci si addentra in mezzo ai collage di Francesca Gabbiani (Vancouver 1965). L’artista, sovrapponendo segmenti di cartoncino colorato, compone delle istantanee pittoriche. Gli scorci di ambienti domestici, sono interni che la Gabbiani seziona e assembla riproponendo frame tratti da scene di film horror e thriller. I soggetti sono presi a prestito, e poi rivisitati, da set dei primi anni Settanta, scomodando anche registi come Dario Argento e Pier Paolo Pasolini. L’artista, là dove vede pacificanti composizioni still-life, ne riproduce l’impianto visivo e poi li seziona, dopo averli scomposti in minuti, irregolari mosaici di cellulosa. Così, alla fine, le opere illuminano spazi ampli ma iper-condensati. All’insegna della perpetua ambiguità.
Sono esposte una decina di opere, le più riuscite sono di grandi dimensioni. A vedere i collage dal vivo stupisce l’immensa piattezza e la prepotente, fasciante, voluta, omologazione delle dimensioni. I punti di fuga sono ripiegati su loro stessi, come una molla pronta a scattare.
Gli oggetti, gli arredi e i decori rappresentati si incollano pesanti, scendendo molli sui muri che li contengono. In questo modo s’inverte il senso tra lontananza e vicinanza. Se si presta maggiore attenzione al proprio punto di osservazione, scegliendo la distanza giusta, si ha l’impressione di venirne risucchiati. Quando poi, ci si avvicina maggiormente, seguendo i richiami maliardi del collage, la profondità affilata, quella che con forza aveva attirato fin lì, quasi di colpo sparisce. C’è un salto prospettico inspiegabile, un’ombra in più, affidata allo spessore dei ritagli, sovrapposti gli uni con gli altri. Fra le scale, gli androni, le ombre, le finestre e le tappezzerie, imprigionati nel cartoncino, si trova una staticità cava che non sembra essere solo e assolutamente scenografica.
Come metro di paragone possono prendersi i diorami, o ancora, per rimanere nei mondi di carta, le stelle filanti. Quando si soffia nell’anello e poi si rimane a veder sfilare l’intera striscia di carta, l’occhio viene catturato dalla veloce carrellata di ellissi colorate che si sciorinano verso il basso. Ed è ancora una volta la forza di gravità che si impossessa, analitica, di ogni scarto dimensionale.
La sensazione che rimane, del tutto nuova, dunque, al di là della minuzia artigianale della composizione, è l’incontrollabile verticalità. Ed è per questo che il pregio dei collage di Gabbiani non è subito visibile. L’artista, infatti, ha saputo inventare un’impalcatura prospettica che giostra l’equilibrio con sapiente dinamismo e libertà cromatica. Ma per palesarlo sono necessari scorci di stanze colpevoli, stanze che instaurano una gerarchia planare e balsamica tra il sogno e il pericolo.
ginevra bria
mostra visitata il 16 novembre 2006
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