Non c’è dubbio.
David Lynch (Missoula, Montana, 1946) è una delle figure che più hanno segnato un immaginario. Creatore instancabile di visioni, le più bizzarre, cupe e assolutamente personali, tanto da imporre l’aggettivo “lynchiano” nel vocabolario dei critici e degli appassionati di cinema e arti visive. L’autore di film come
Eraserhead,
Velluto Blu, del recentissimo e delirante
Inland Empire e di fenomeni di culto come il serial televisivo
Twin Peaks, da decenni si è fatto conoscere non solo per i suoi capolavori, adorati e odiati da un vastissimo pubblico di devoti e detrattori, ma anche per la sua incredibile trasversalità artistica e culturale: pittore, scultore, designer, musicista, vignettista, collezionista di chitarre e presidente di una fondazione per la meditazione trascendentale che porta il suo nome.
Un anno fa, la parigina Fondation Cartier ha deciso di mostrare questo incredibile ventaglio artistico del regista americano, costruendo con l’autore un percorso e una serie di dispositivi scenografici-espositivi che accompagnano il visitatore in un mondo che, più che onirico, appare come un’interferenza della realtà.
Questa mostra, curata da Hervé Chandès, è ospitata negli spazi della milanese Triennale e rappresenta un’ottima occasione per avventurarsi nell’universo-Lynch. Fin dalla prime opere esposte, grandi quadri affissi su drappi teatrali rossi e gialli, appare chiara la straordinaria attitudine pittorica del regista che, con disinvoltura, passa da una tecnica espressiva a un’altra con la medesima intensità e capacità di formulare sempre immagini curiose, dense e talvolta misteriose. Guardando senza mai citarli direttamente a un numero incredibile di riferimenti artistici, da
Braque a
Dubuffet, da
Hamilton a
Hopper, da
Atget a
Eggleston.
Si passa così da piccoli disegni a enormi collage fotografici con superfici fredde e digitali a interventi materici, o meglio organici, che sottolineano la predilezione di Lynch per le forme indefinite, consumate. Corpi contorti, come nella serie fotografica
Distorted Nudes, o grumi di pittura dove il corpo è appena suggerito da parziali indizi anatomici o da fumetti, nei quali si depositano frammenti di un discorso, come battute estrapolate da un copione o frasi che costituiscono il titolo stesso dell’opera. Un’infinita serie di piccoli schizzi, disegni e appunti presi su frammenti di carta e altri supporti improvvisati, che confermano l’istinto del regista di creare piccoli mondi con segni anche minimi, ma tuttavia caratteristici ed esclusivi della sua poetica.
La mostra, pensata come un’esperienza, comprende anche una bizzarra scenografia a grandezza naturale e una saletta cinematografica dove scorrono una rassegna di animazioni del regista e brevi film sperimentali che riportano le immagini al movimento e che ben dialogano con il resto dell’esposizione. A caricare l’ambiente di toni cupi e post-industriali ecco riecheggiare le sonorità sorde e alienanti che, sa da una parte riconducono alla cinematografia del regista, alle sue strade, ai suoi interni da incubo, dall’altro risultano particolarmente appropriati al capoluogo lombardo che ospita questa tappa espositiva.