“Mai dare tempo al tempo”
. È questo il pensiero che
accompagna l’umorismo serio del professor
Eric
Bainbridge (Consett, 1955; vive a Hartlepool). Ecco dunque svelato il suo perché. Nella Villa Reale di
Monza, fino alla prima settimana di febbraio, l’artista inglese partecipa alla
collettiva
Gli anni ‘80, presentando (esattamente come venticinque
anni prima) la sua nostalgica scultura
Dark style swan.
Preludio di ritorni, quest’opera preannuncia i centodieci
collage custoditi dalla Galleria Salvatore e Caroline Ala. Da sempre
sostenitori e complici delle inferenze estetiche di Bainbridge,
i due
collezionisti espongono infatti l’ultima serie di ritratti-collage composti
dall’artista inglese.
Tra dubbio, assenza, banalità, complicazione, estrazione e
riconversione, i lavori senza titolo di Bainbridge continuano a brulicare
nell’aria; ripudiando nel dimenticatoio, per chi se la ricordasse, la
compostezza ridanciana della sua scultura. Per un errore incomprensibile,
sembra che la bi-dimensione del supporto cartaceo abbia trovato come accedere a
un’altra dimensione; un’atmosfera che lo sguardo non riesce a formalizzare, ma
che il senso nascosto delle cose, invece, addita costantemente. Indicando la
realtà come mezzo di transito, senza speranza di mera vita propria.
Donne come maschere. Ritratti senza profili, colori puri e
forme geometriche diventano creature astratte che popolano la carta bianca,
sovrapposta a ritagli di riviste di moda e a pagine pubblicitarie.
Per i collage, Bainbridge utilizza le riviste di moda, le
icone perfette che, invece, a lui servono come basi dalle quali s-figurare ogni
senso di interezza. Sulla carta bianca, i volti diventano passamontagna cavi,
senza occhi, né bocca, sostituiti con voluta incuria da segmenti di colori
saturi. Parti che oggettivizzano qualsiasi barlume di identità. Quando,
all’opposto, (positivo/negativo),
l’immagine fotografica di una casa viene
usata come un piano d’appoggio prospettico dei collage, allora i ritagli
diventano membra sparse, scardinando la presenza dell’uomo fino a farla tornare
a scattered glance.
Un ingresso veloce che in un solo batter di ciglia ribalta interno e interiore.
Viene da chiedersi: perché questi mille buchi di carte
diverse continuano a farmi guardare lì in mezzo? Perché quel che sembra
leggerezza, soavità e banale sdoganamento ironico della composizione continua a
eludere la pedante monotonia di tanta ripetizione?
Forse la riposta resta più comunemente invisibile nel
famoso “niente”. In quel vuoto sensazionale che Bainbridge non crea né di cui
si vergogna, ma che semplicemente sposta. Tra frammenti di corpi, fantasie
fiorite, nature artificiali e sagome usate come dubbi di cartone che non
chiedono origini né originalità, proprio perché, come in
Supercollage, cessano definitivamente di
esistere per poi prendere forma.