Erwin Panofsky, Edgar
Wind e i cultori della materia iconologica troverebbero non pochi elementi di
studio in questi ultimi lavori di
Jörg Immendorff (Bleckede, 1945 – Düsseldorf, 2007).
Esponente di primo
piano del Neoespressionismo tedesco insieme a
Georg
Baselitz,
A.R. Penck,
Sigmar
Polke,
Anselm Kiefer,
Gehrard Richter e
Markus Lupertz, Immendorff arriva sul
suolo italico negli spazi espositivi
di Cardi Black Box in occasione della sua prima personale, nell’ordinamento di
una mostra volutamente lontana dalla retrospettiva e concentrata piuttosto
sugli ultimi lavori, realizzati quando la sclerosi
laterale amiotrofica di cui da tempo soffriva lo stava lentamente uccidendo.
Le opere in mostra – quattordici
oli su tela, tutti
Untitled datati fra il 2006 e il 2007 e
realizzati con la collaborazione di alcuni assistenti per ovviare alle
difficoltà motorie causate dalla devastante malattia – testimoniano una
costruzione molto meditata dell’immagine, che sembra lasciare dietro a sé il
codice marcatamente neoespressionista per far emergere piuttosto una sintesi
espressiva affine agli esiti di un
Ryan Mendoza. Se
non addirittura – non certo per affinità elettive ma per quel certo
non-so-che in
vitù del quale si possono scorgere recondite armonie fra sperimentazioni
differenti – agli approdi di certi
Jake & Dinos Chapman.
Certamente il codice espressivo
del
giovane Immendorff – il codice
espressivo ammantato di valori sociali e politici che ha dato l’impronta di sé
alla storicità della produzione di Jörg Immendorff rispetto agli esiti ultimi
che si possono ammirare nel
black box meneghino – permane intatto nell’iconografia delle ultime
realizzazioni. Che tuttavia si discostano dall’
imprimatur dell’opera degli anni ’70 e ’80, per lasciare il posto a un’inedita
costruzione dell’immagine, con una forse ancor più pronunciata concessione alla
simbologia.
In queste ultime opere
sono infatti frequenti i riferimenti al
Goya dei
Disastri della guerra, a personaggi della mitologia classica come l’Ercole Farnese e il
Laocoonte – personificazioni del coraggio di fronte alla sorte avversa – e a
Joseph
Beuys, mentore di Immendorff durante gli
anni di studio all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf e citato con
l’immancabile cappello di feltro. Insomma, qui c’è tutto Jörg Immendorff,
nonostante la maledetta malattia.
Con questi
late
paintings, come recita con forza tranquilla il
titolo della mostra, il pittore tedesco sembra voler
rompere l’idea del bello, coniugando i riferimenti all’incisione
raffinata di
Dürer –
La Melancholia, ripresa con metodo pittorico – a una pittura violenta. Il
risultato è il ribaltamento del paradigma che vuole l’unità dello stile a
fondamento della buona pittura: qui abbiamo una discrepanza coscientemente
ricercata e una sintesi formale volutamente frastagliata.
Il risultato è, ancora
una volta, buona pittura. Didascalica, certamente. E caotica. Ma molto
meditata, con tutte quelle deformazioni che drammatizzano le figure, a
memento
che la pittura non è mai mimetica.
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il non eccelso mendoza c'entra assai poco e i disastri della guerra dei chapman sono una versione sommessa e un po accidentale dei loro lavori scandalistici
come altri selvaggi tedeschi immendorff piuttosto è andato orientandosi verso un discorso sovrastorico, una sorta di classicità spremuta a partire dalla scompaginazione contemporanea
forse qui ha accolto qualcosa di polke accentuando però le note gravi
ha trovato la forza di rinnovarsi all'ultimo
a differenza di baselitz che è fermo da quasi 30 anni inscatolato in un gesto ormai stinto in semplice sigla