Spesso accade che un paese, una città, uno Stato, racchiudano tratti, stilemi, esigenze espressive che, successivamente, diventano una costante fondamentale ed inevitabile nel linguaggio pittorico, poetico o musicale di un artista.
Infatti, non è possibile comprendere la prima mostra italiana di Marco Gurtner se non ci si rifà costantemente alla sua terra d’origine, la Svizzera, da sempre un “non luogo” nel frammentario aspetto di crocevia culturale, una frontiera ricca di molteplici istanze linguistiche che, nel loro silenzioso passaggio, lasciano il segno di un’epifania episodica e provvisoria.
E proprio nei volti di Gurtner, privi di dettagli e di rimandi ritrattistici, impenetrabili nella loro ferma malinconia, si coglie un confine non precisato tra tensione e deformazione, tra disarmonia e follia, tra mistero e “non luogo”.
Un mistero però apparentemente contestualizzato in chiave mitteleuropea, perché la successione di questi volti, generati da un’intima solitudine, parlano silenziosamente la lingua di “un certo espressionismo”, non quello “cifrato” o “cifrante” di Giovanni Testori, ma la forma più “maledetta” e spietata nella sua indecifrabile condizione di spaesamento.
Uno spaesamento accresciuto da una sensazione estraniante di atemporalità che non conosce tregue, tremendamente perfetta nella sua implacabile ripetizione che sembra accostare in un’unica frase singoli stilemi linguistici, creando così un intreccio inestricabile di realtà e finzione, verità ed illusione, senso e non senso.
Vivendo la pittura dell’oggi con quella perplessità che è segno di grande consapevolezza, Gurtner sembra voler tracciare un percorso archeologico che analizza tutti gli emblemi, gli archetipi, le icone che, da sempre, hanno segnato la storia artistica del volto, senza nostalgie o facili ripetizioni, impotente testimone della fine di un linguaggio di cui oggi rimane solo il ricordo interiore.
Basta osservare Plenilunio per comprendere come uno tra i temi più importanti della tradizione poetica assuma nell’opera di Gurtner la forma di una testa, e come i volti rappresentino, a loro volta, l’astratta geometria della luna, in una continua trasposizione segnica che rende unici protagonisti l’ambiguità e l’intuizione, complici di un incessante gioco linguistico disposto a rivelare le tappe di un enigmatico viaggio all’interno della forma stessa.
E come i titoli delle opere lasciano solamente trapelare le forme, i gesti, le figure, senza tradirle svelandone il segreto, così il colore pesto, raffinato ed elegante nella sua innaturale febbrilità, diventa prezioso complice di una cifra formale che proprio nell’intraducibile uniformità trova la sua intonazione più autentica.
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Elena Granuzzo
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