La Galleria Minini ci aveva abituati a raffinate riflessioni sui resti delle utopie moderniste con le squadrate geometrie di
Jan De Cock, con i lavori di
Debora Ligorio e
Riccardo Previdi o con l’astrattismo decomposto di
Simon Dybbroe Moller. Ma questa mostra sembra andare in una direzione diversa.
In realtà, in particolare il lavoro volutamente low-grade di
Tobias Buche (Berlino, 1978) riprende alla lontana uno dei miti più cari dell’architettura modernista degli anni ’60, quello dell’all-over, della possibilità cioè di continuare all’infinito un ritmo, un pattern generalmente di finestre, per parlare di uno dei miti più vivi di oggi, quello dell’opera di basso profilo, incentrata su un’apparente costruzione casuale.
Google ci ha costretti a ben altri tempi rispetto alla ritmica modernista, e nel lavoro dell’artista tedesco il ritmo diviene quello dell’accumulo e dell’irregolare. Le immagini si fissano senza rimandi espliciti, senza seguire linee di sviluppo, ma percorrendo la via sconnessa dei ricordi e delle ricerche online.
Nei plexiglas in cui le immagini galleggiano sulle mura bianche della galleria, così come nel ricordo adolescenziale di scrivanie decorate con miti e ritagli di film e giornali, i ricordi si fissano sparsi, privati di storia. Nei blocchi, come appunti appesi alle pareti, sembra invece ricomparire il tracciato di una narrazione. È come se un disegno o un racconto volesse prendere forma, attraverso la rimozione e la cancellazione d’immagini precedenti, senza però mai arrivare a una completa realizzazione, rimanendo invece un impossibile sedimento di ricordi sempre più sfumati.
Ma la mostra in galleria vede coinvolto anche
Jonas Lipps (Friburgo, 1979; vive a Berlino). Nonostante abbiano già lavorato insieme diverse volte, come alla Galleria Lehmann Maupin di New York, sembra difficoltoso a prima vista trovare un nesso tra il lavoro di Buche e quello di Lipps. Di fatto, però, il substrato è comune: entrambi i lavori si basano, infatti, su una serie di ricordi casuali tratti dall’adolescenza.
Quelli di Lipps sono segni che prendono vita da strati sovrapposti, tracciati su una carta che non trattiene il tratto e il colore, in una battaglia persa in partenza da cui fuoriescono mostri, fumetti, violenze e incubi d’ogni sorta. Avviene così un regresso nell’inconscio, un autoritratto senza celebrazione in cui il racconto casuale di ritagli e immagini viste diviene un modo, forse più reale, per tracciarsi e riconoscersi.
Mancare questa mostra vuol dire perdersi un piccolissimo assaggio di
unmonumental a Milano.
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Tecnicamente ragazzi bravissimi, ma di modernismo e immagini sgranate che riaffiorano dal passato non ne possiamo veramente più.Abbiate pietà. Già Ian Tweedy e molti altri percorrono questo artigianato, ma l'arte migliore del nostro tempo deve fare ben altro che ricognizioni sul "già visto".