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Cosa sono le nuvole?” Viene da chiederselo con le parole di
Pier Paolo Pasolini, che così titolava un suo celebre cortometraggio. Quella di
Antony Gormley (Londra, 1959) è una nuvola in piombo, che sfida la gravità con la sua pesantezza, ergendosi sopra le teste degli spettatori nell’atrio della Galleria Ala. Niente di più lontano dalla leggerezza che caratterizza solitamente questi addensamenti atmosferici, dalla densità volatile e quasi inconsistente.
Mind (1984), questo il titolo dell’opera, è invece un monito che pesa sugli uomini, un corpo estraneo che si frappone tra noi e il cielo. Le figure in ferro e piombo di Gormley sembrano osservarla in attesa, chiuse nel silenzio e nell’incomunicabilità, immobili in una narrazione senza tempo, che pare non prendere vita. Al centro della narrazione è il corpo umano, vero e proprio luogo da abitare, solido edificio all’interno del quale vale la pena di entrare.
Il corpo è quello dell’artista, usato come modello da cui ricavare calchi in gesso, da utilizzare poi come matrici per la fusione di statue in piombo; ma è anche quello universale, il corpo che tutti noi abitiamo. Le figure non hanno niente di intimo, non sono autoritratti; anzi, ricordano nella loro ieratica fissità i
kouroi dell’antica Grecia.
Il corpo diventa materia prima da plasmare per rispondere a domande universali sulla condizione umana. La scultura è come un fossile in cui si tramanda e che porta con sé l’esperienza umana. Non un calco vuoto, quindi, ma un modo per svelare e ri-velare ciò che già esiste e si è verificato, ma che ancora non è visibile agli occhi dell’uomo. “
La scultura, per me, usa mezzi fisici per parlare dello spirito, il peso per parlare della sua assenza, la luce per parlare del buio, un medium visivo per rimandare a cose che non possono essere viste”, dichiara Gormley in un’intervista.
La presenza di questi intrusi, sapientemente ordinata dalla coreografia dell’artista londinese, riesce a dare un senso nuovo anche allo spazio architettonico della galleria. Quello che viene mostrato non è solo il corpo, infatti, ma anche l’ambiente nel quale è inserito, che diventa una cassa di risonanza, amplificando l’esperienza dello spettatore.
L’ombra di
The Beginning, The Middle, The End si allunga sul pavimento, prendendo possesso dell’area che la circonda. La figura in terracotta che sovrasta la scultura in piombo guarda indietro, appollaiata in stato pensoso: potrebbe trattarsi della memoria umana, un peso sulla mente dell’uomo. In
Fill, invece, il corpo appare sdraiato, quasi crocefisso a terra, con il volto rivolto al cielo, in attesa di una misteriosa rivelazione o semplicemente in cerca di pace.
La domanda che sembrano porsi tutte le sculture pare la stessa, che da anni interessa il discorso artistico di Gormley: chi sono io nello spazio?