La cancellatura è una forma eversiva che, destabilizzando la logica del linguaggio, si fa strumento di comunicazione e di critica sociale. Il suo fine è ribaltare l’apparenza, mettere in dubbio le certezze del sistema mediatico e consumistico, abbattere l’unidirezionalità della lettura.
Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937; vive a Milano) la introduce a partire dal 1964, quando fanno la loro comparsa i primi giornali cancellati.
Da quel momento in poi, attraverso opere come libri-oggetto e installazioni, l’artista ha cancellato notizie, vocabolari, enciclopedie, carte geografiche, pagine di letteratura, favole e perfino la Bibbia, insieme a tutto ciò che rappresenta il veicolo del sapere per eccellenza, della cultura codificata, della parola omologante e usurata da una quotidianità in preda a vizi e contraddizioni.
Il gesto cancellatore ha modificato nel tempo il suo aspetto – assumendo di recente le sembianze di formica o di ape – ma non la sua funzione: quando oggi Isgrò cancella
Fratelli d’Italia, ripete in fondo la stessa operazione critica, tesa a cancellare le parole inutili, intrapresa già in passato, prima con opere che seguivano la scia delle ricerche poetico-visuali fiorentine (come
Paolo e Francesca del 1966), poi con quelle della maturità, quando prende le distanze dalla poesia visiva per elaborare il proprio originale percorso, più volte confuso e catalogato erroneamente con l’etichetta di “arte concettuale”.
Di fronte a questa singolare installazione – che sarà imitata di nuovo in maggio a Bruxelles, quando l’artista cancellerà prima l’inno fiammingo e via via gli altri inni nazionali – l’osservatore è costretto a dialogare con quel che resta della cancellatura: se in passato la china o l’acrilico lasciavano trasparire qualche frammento di frase del testo, in
Fratelli d’Italia tutto ciò non accade: la parola è decomposta, affetta, emerge a piccoli spezzoni, afferma la propria forma. Nulla è però sinonimo di nichilismo o di pura provocazione: cancellare un simbolo di appartenenza nazionale come l’Inno di Mameli nasconde piuttosto una riflessione sulla nostra contemporaneità, assuefatta al conformismo e bisognosa di nuovi valori.
La mostra del Credito Valtellinese ha il merito di presentare per la prima volta a Milano un’esauriente retrospettiva dell’artista “siculo-milanese”, dagli esordi da poeta visivo fino alle opere più recenti, come
Seme d’arancia (1998) o il
Mantra siciliano per madonne toscane (2008), riproponendo al pubblico due storiche installazioni come l’
Avventurosa vita di Emilio Isgrò (1972) e l’
Ora italiana (1985), realizzata in memoria della strage alla stazione di Bologna.
Con un excursus fra 73 opere scelte, Isgrò sembra restituire allo spettatore un nuovo
Cristo cancellatore: come nella celebre installazione del ’68 alla Galleria Apollinaire, anche
Fratelli d’Italia confuta quell’identità collettiva che solo il lettore potrà ricostruire, chiamato a ricondurre il filo alla propria matassa.
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Prospettiva Isgrò
Ancora una volta le opere di Emilio Isgrò esposte alla Galleria del Credito Valtellinese di Milano riescono a infondere calma e serenità profonde.
Infatti, le sue cancellature non sono un gesto aggressivo ma liberatorio che consente di sgomberare gli archivi-ormai troppo carichi- della memoria così da far affiorare nuovo spazio e più vigorose energie.
Allora anche le formiche laboriose che oscurano il volto della Madonna delineano la possibile prospettiva di una mistica nuova ben oltre ogni logora oleografia.