Qui ogni parola svia dalla propria definizione. Il senso, appartenente a uno sparuto numero di lettere, diventa suono. Ogni lemma si isola, si estrae dal linguaggio e diventa, finalmente, una pausa. Misura della sospensione e forziere del tempo. In questa breve collettiva proposta da Gianni Romano, la parola dunque significa un insieme di pensieri, senza più null’altro attorno. Ecco dunque il percorso espositivo allestito in galleria.
Nei frammenti velati di
Vittorio Corsini e
Mario Dellavedova, i due artisti lavorano sulle richieste, sui consigli e sugli inviti del pubblico, dedicando le loro tematiche alla concentrazione, impressa sulla superficie del vetro o del tessuto. Nell’opera di
Alighiero Boetti, il sale e lo zucchero si trasformano in due momenti dati, due indicatori di materia nei quali il gioco tocca, con il sorriso, la sensibilità e l’intelligenza di ognuno.
Da questo tipo di linguaggio proviene anche l’installazione luminosa, dal titolo
Red, di
Maurizio Nannucci che, simbolizzando il colore rosso, mostra il risultato della somma fra nome, concetto e rappresentazione del soggetto. I due lavori di
Joseph Kosuth invece moltiplicano celebri frasi della cultura contemporanea. Come multipli, come oggetti che potrebbero essere uno, cento e che, se fossero mille, vorrebbe dire che potrebbero essere tutti insieme a disposizione, contemporaneamente, di mille spettatori. Ognuno dei quali, a sua volta, ne avrebbe uno da esplorare.
La parola, attraverso le tele epigrafiche di
Ben Vautier, svela e appiattisce. I mondi dei complotti e delle minacce diventano uguali, quasi come se fossero differenti immagini riflesse, però dalla medesima luce. Nelle tele di Vautier, la superficie della parola scritta, in rilievo, muta continuamente, a seconda della posizione degli angoli visuali, rendendo le lettere una traccia autografa e oggettuale. Con
Nicola Bolla, al contrario, la parola non è inerte e rifiuta la contemplazione, diventando un dispositivo che supera lo stesso spettatore, sfuggendo ai suoi tentativi di composizione ordinaria; sfruttando allo stesso tempo la propria molteplicità fisica.
Con
Marco Neri, la parola-oggetto è un fonema insospettabile. Un gioco spensierato e malinconico che non assume validità per fattori compositivi, non avendo alcuna importanza la presenza dell’atto ludico in una forma piuttosto che un’altra. Scacchiere bicrome, elementi ricorsivi e modularità geometriche accompagnano un linguaggio senza cifra stilistica, attraverso il quale si deve raccontare a tutti, anche ai più indifferenti, il medesimo universo espressivo.
Da curiosare con un occhio di riguardo i disegni di
Raymond Pettibon e le fotografie di
Richard Prince, che mischiano la rappresentazione poetica della realtà con un lirismo rubato dalla semplicità popolare. Per finire, anche se di carattere più analitico, è bene ricordare la smaterializzazione astratta del’opera d’arte attraverso le architetture linguistiche di
Monica Bonvicini, capace di sbaragliare qualsiasi giudizio sul luogo comune.