E’ un rapporto stretto, quello tra l’artista Monica Bonvicini (veneziana, ma berlinese e cosmopolita per adozione) e la milanese galleria d’arte Emi Fontana. Tanto che questa nuova personale, costituita di opere ed installazioni espressamente progettate site specific, è addirittura la quarta. Informazione, questa, non esclusivamente di carattere aneddotico, ma indicazione per la lettura di un percorso che si snoda nel tempo e nei luoghi, passando però ciclicamente anche da questo spazio espositivo nascosto e minimalista.
Da sempre impegnata nell’indagine sulla relazione che si viene a creare tra le coordinate di spazio e genere/pubblico e privato, già nelle due scorse personali ospitate da Emi Fontana, Bonvicini aveva fatto emergere elementi importanti nella ricostruzione di un percorso preciso.
Nel 2001 l’artista presenta un lavoro impostato sulla condizione del maschio anni ’70 (Eternmale, 2001, Galleria Emi Fontana), strano essere in bilico tra un mondo esterno ed uno interno, quest’ultimo ricostruito in base a tendenze e dettami della rivista Playboy. Il piano intimo in questa dicotomia viene ulteriormente approfondito nella successiva mostra (Bonded Eternmale, 2002, Galleria Emi Fontana), dove gli stessi oggetti utilizzati un anno prima a rappresentazione di un mondo patinato e seducente, vengono ripresentati avvolti e cuciti in pelli nere, voluttuose e dure allo stesso tempo. Sorta di educazione sentimentale che si evolve negli anni, rivolgendosi ora ad un maschio nuovo, riflesso di una società mutata e travolta da una rivoluzione sessuale dai contenuti meno limpidi e netti di quella precedente, che ci porta a torbide allusioni fetish e sadomaso protagoniste dei nostri tempi (ma non così nuove, De Sade docet…).
Un’altra direzione importante del lavoro di Bonvicini è costituita da Stairway to Hell (2003, VIII Biennale di Istanbul): attorno ad una scala del padiglione si sviluppava una struttura di plexiglas segnata da buchi e crepe ad opera di proiettili, che si trasformava al piano sottostante in una serrata cortina di catene. Di nuovo la relazione tra uno spazio esterno ed uno interno, indagata in modo provocatorio e pungente.
Ed infine la recentissima installazione Don’t Miss a Sec (2004, Londra): un parallelepipedo in vetro rifrangente diventa una toilette pubblica, moderna e modernista, dove è possibile vedere senza essere visti (riflessione sul voyerismo imperante), essere “dentro” ma nello stesso tempo “fuori”.
Gli elementi di tutti questi lavori si fondano e si ritrovano in quest’ultima personale, dove quattro gabbie di rete metallica contestualizzano ed imprigionano altrettanti oggetti ricoperti di pelle nera, offerti impotenti allo sguardo altrui. Gli oggetti in questione sono degli utensili come motoseghe e martelli pneumatici, tutti legati quindi all’atto del costruire o distruggere, resi ambigui dalla negazione di questa loro funzionalità, ed anzi resi antropomorfi dalla pelle nera. Venendo infine ridotti a feticci, a pura forma, inseriti in una nuova categoria estetica. I numerosi collages affissi alle pareti intorno alle gabbie completano ed elaborano l’indagine, mentre al capolinea dello spazio espositivo si trovano una panca in metallo e cinture di pelle nera intrecciate tra loro ed un trapano, anch’esso nero (2004, Blind Shot). Un timer ne controlla gli ultimi spasmi di attività, rantoli e singulti che improvvisamente animano l’oggetto appeso che, vibrante e rumoroso, tenta invano di districarsi tra le categorie. In bilico tra feticcio ed objet trouvé.
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saramicol viscardi
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