-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
polemiche in occasione dell’apertura della mostra che il Centro Svizzero di
Milano ha dedicato a Fabrice Gygi (Ginevra, 1965). E tuttavia, la personale, la sua prima
in Italia, è composta da due opere che tanto possono, a uno sguardo distratto,
sembrare impercettibili, quanto sono in realtà detonatrici.
L’installazione di Gygi è
piuttosto violenta nei confronti della città di Milano, strana metropoli del
Sud Europa, così legata all’efficienza e al managerialismo che il grande
intellettuale Luciano Bianciardi fu licenziato dal suo editore-padrone di
estrema sinistra perché strascicava i piedi per terra. Una città così presa dal
proprio fare
che il viaggiatore ottocentesco André Suares ne descriveva gli abitanti tutti
concentrati a guardare ai propri piedi nell’atto di muoverli frettolosamente in
avanti (Le Voyage du Condottière, 1893).
Gygi non ha concepito le due opere
esposte (Press Conference Room e Meeting Room) appositamente per Milano. Ma qui cascano come due mine
delicatamente appoggiate dietro un angolo del marciapiede. Se la descrizione di
Suares è ancora valida, i milanesi saranno lesti a scartarle come due
escrementi di cane, ed è forse per questo che non c’è stata polemica: i
milanesi non si fermano a riflettere di fronte a simili ostacoli. Forse sbagliando.
Come funzionano le due opere? Sono
due dispositivi: Gygi presenta sempre il proprio lavoro come un dispositivo
introdotto in un ambiente architettonico.
Nella prima sala ci si avvicina al
tavolo dove sono i comunicati stampa e non si vede altro. Dopo un po’ ci si
accorge che la sala stessa è occupata da banchi intelaiati in metallo e in
fondo c’è il palco, anzi il pulpito con i microfoni. E pensi: “Ah, non
sapevo che ci fosse la conferenza stampa”. E infatti non c’è: è la prima delle due opere,
costruita in modo delicato, povero (il legno è di qualità, diciamo così, Ikea,
il metallo non verniciato). L’unico elemento effettivamente destabilizzante è
il fatto che, al posto della pedana per gli oratori, c’è una ulteriore
panchina, e se qualcuno ci salisse rischierebbe di sbattere il muso. Quando il
visitatore-“addetto ai lavori” realizza che l’opera finge una conferenza stampa
posticcia, incomincia a nutrire qualche perplessità sul suo stare lì (“ma
dove sono, ma cos’è?”),
si siede su una panchina e riflette su quante volte si è ripetuta questa scena
della conferenza stampa.
Nella seconda sala è ancora
peggio: c’è un tavolo rotondo, sempre nello stesso materiale, e non ci si può
nemmeno sedere come si fa normalmente in occasione di una riunione, un
briefing, un debriefing, un dibattito o una piattaforma partecipata per
rinnovare la politica. Non ci si può sedere perché ci sono dei dissuasori, come
dei feticci di cannone vuoto che significano: “Da qui non si passa”.
I due dispositivi di Gygi sono
degli indicatori, dei segnali minati che interrogano: che si fa? Una domanda
rivolta anche e soprattutto a chi opera nel mondo del culturame…
Gygi
e la Biennale di Venezia del 2009
vito calabretta
mostra visitata il 17 settembre
2010
dal 17 settembre al 13 novembre
2010
Fabrice Gygi
Istituto Svizzero
Via del Vecchio Politecnico, 3
(zona Palestro) – 20121 Milano
Orario: da martedì a venerdì
ore 11-17; sabato ore 14-18
Ingresso libero
Info: tel. +39 0287128882; milano@istitutosvizzero.it;
www.istitutosvizzero.it
[exibart]