Immagini. Cartolina, da “sogno americano”. In due parole l’opera di Heidi McFall (Dewitt, Idaho, 1974), in mostra a Milano. Con soggetti che stipulano un rapporto ambiguo con la realtà : da una parte la raccontano, le stringono la mano. Dall’altra la negano. Narrando uno spaccato made in Usa, che più che alla quotidianità fa pensare ad una certa cinematografia anni ’70, quella dei capelli cotonati e delle t-shirt a bande bianche e rosse. Quella delle giubbe in pelle e dei ciuffi a banana. Un patrimonio di riferimenti e ricordi, insomma, che -da American Graffiti in poi- appartiene a tutti, dai malinconici ai contemporanei. Non a caso le inquadrature orchestrate dall’artista organizzano un menage cromatico che a prima vista potrebbe suscitare dubbi, se considerato in virtù dell’estrema laccatura delle superfici, dell’accuratezza nella resa dei dettagli. Eppure il beneficio del colore la pittrice lo dà , spesso, solo ai suoi sfondi, a volte campiture piatte ed anonime, turchesi, rossi, arancioni scintillanti che non spiegano, bensì sottolineano le situazioni che vanno ad incorniciare. I corpi, i volti, i movimenti disegnati a pastello e carboncino, con attitudine iperrealista, descrivono un immaginario filmico, fatto di vite irreali, appese a storie non approfondite, a sequenze nostalgiche d’altri tempi, con lacrime, sorrisi, abiti e congiunture dell’epoca dei “telefoni bianchi”. Non a caso, in bianco e nero.
Le nove tele esposte in galleria, accostate in un percorso sensoriale, più che cronologico, vanno a comporre un patchwork di ritagli di giornale. Un album di ritratti di star, di foto del passato, una pellicola inedita. In cui non è importante tanto scendere nei particolari, contestualizzare le azioni dei personaggi chiamati in causa, quanto visualizzare l’analisi delle emozioni umane che l’artista ha colto.
Illudendoci di conservare un rapporto serrato con il referente reale, con il quale seduce, prendendosi gioco delle nostre certezze attraverso l’ambiguità paradossale tra astrazione, data dai peccaminosi sfondi colorati, e figurazione.
Eppure il desiderio di introspezione, non è una giustificazione sufficiente all’opera della Mc Fall. Tutt’altro. Questi ritratti, così patinati, di emozioni contenute, raggelate, mai passionali e disperate, ad una visione prolungata risultano essere grottesche. Come se l’artista volesse deridere, con spietatezza, quell’universo mitico, anacronistico, da cui sembra al contempo attratta e respinta. E nel quale torna indietro, si avvolge. Rievocando popcorn sgranocchiati al cinema, bimbi sorridenti su scatole di biscotti in latta. Descrivendone gli attimi rari e congelando il tempo, che allora scorreva lento, in stills preziosi, foto retrò da celare gelosamente sul fondo del cassetto.
santa nastro
mostra visitata il 24 novembre 2006
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