Non c’è bisogno di scomodare Hobsbawm per
ammettere che il XX secolo è finito a novembre di vent’anni fa, tra picconate e
calcinacci, hair-metal e aperitivi. Arriva da qui la spolverata generale e
generalista sugli anni ’80, la rivisitazione (o il revisionismo?) sul decennio
di confine fra una storia dai ritmi in fondo rassicuranti e un vivere dal
battito accelerato, ipertiroideo.
È in questo contesto che s’inserisce l’evento
monzese ideato da Marco Meneguzzo. Evento, già, perché “mostra” è riduttivo:
non di solo esposizione vive infatti quest’esperienza, ma di una visione
multistrato che sceglie l’arte come filtro preferenziale, integrandola però in
un quadro più ampio, ben delineato dal ricco catalogo e dai contributi di
un’audioguida che (caso raro!) vale davvero la pena ascoltare.
Il “giro” della mostra è chiaro e limpido. Il
Serrone, prima di dedicare una fotografia alla scena europea – soprattutto
tedesca -, accoglie la ricca carrellata di maestri italiani:
logica protagonista
la Transavanguardia, rappresentata da tutti i suoi cinque cavalieri e anche da
quanti (vedi
Nino Longobardi e
Mimmo Germanà) arrivarono giusto
con quei cinque minuti di ritardo; ma lucida occhiata anche su chi, pur
lavorando da tempo, trovò in quel periodo stimoli diversi o rinnovate fortune,
come
Vedova o Schifano.
Uno sguardo ricco e complesso, impreziosito da
momenti eccezionali: come il
Silenzioso mi ritiro a dipingere un quadro di
Paladino, santificato come
primo lavoro “ufficiale” dell’artista; o ancora l’
Orto botanico di
Schifano, pezzo di rara
capacità seduttiva. Sguardo che nella rapida sezione sulla mitteleuropa s’impreziosisce
del confronto dei vari
Baselitz,
Hödicke e
Fetting con il modello
espressionista. Tanto per restare nel
multilayer,
basta ricordare come
Christiane F. sia uscita dallo zoo di Berlino per entrare al cinema proprio nel
1981, anno del primo album degli Einstürzende Neubaten… Giusto per far
quadrare il cerchio e non guardare all’arte per compartimenti stagni.
L’interesse per il “fare pittura” e
l’attenzione alla tavolozza, giudicati come denotativi dell’arte italiana ed
europea del periodo, sono il discrimine che spiega la “frattura” della mostra
in due sedi espositive: nell’Arengario l’orizzonte si sposta verso l’area
anglosassone, significata dalla scelta di artisti che guardano verso la
tridimensionalità (a proposito: eccezionali i
Buildings di
Tony Cragg).
Imprescindibile, passando per gli Usa, un
fotogramma dedicato a figli o nipoti della Pop Art (poteva forse mancare
Basquiat?). In questo senso è
apprezzabile la volontà di testimoniare il lavoro di
Keith Haring con alcuni suoi
Subway
Drawing,
gessi su carta nera nati proprio nelle stazioni della metropolitana. A
simbolizzare la genetica e la dinamica di un particolare e ben definito momento
artistico.