I want to live forever è il titolo della mostra che
porta a Milano una selezione di opere vecchie e nuove di
Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929; vive a Tokyo).
Niente a che fare con una retrospettiva in senso stretto: molti dei lavori
esposti sono infatti datati 2008 e 2009, e reinterpretano instancabilmente i
motivi classici dell’opera dell’artista giapponese. Quelli per cui ormai la si
riconosce da lontano, veri e propri marchi di fabbrica della sua vastissima
produzione.
L’ossessione di Kusama per le reti e i pois dura infatti
da mezzo secolo e, come una vera e propria malattia, si propaga aggredendo
vestiti, animali, tele, superfici di ogni genere. Al Pac sono comparsi enormi
pois rossi persino sulla facciata. Si direbbe che l’eterno ritorno dell’uguale
non sia un problema che preoccupa Kusama, fedele al suo linguaggio con una
coerenza che sfocia nella patologia.
Con una tecnica abile e paziente, Kusama riempie
completamente lo spazio delle tele con i pois, quasi per un senso fortissimo di
horror vacui.
Nella serie
Infinity nets, tocchi minuscoli e precisi di colore danno vita a un
reticolo di puntini distribuiti uniformemente sulla tela. Austere monocromie o
vibranti contrasti a tinte psichedeliche, queste enormi opere declinano il
verbo dei pois in un numero pressoché inesauribile di varianti.
“
Un pittore deve dipingere continuamente un unico
capolavoro – se stesso”, affermava
Yves Klein, che con Kusama ha più di un punto in comune, a partire
proprio dalla continuità espressiva reiterata in maniera maniacale (coloristica
quella di Klein, formale quella di Kusama). La ripetizione quindi non stanca,
tutt’al più ipnotizza.
Lo spettatore che visita la mostra è infatti trasportato
in uno stato allucinatorio dagli ambienti a specchio, che rimandano
all’infinito deboli bagliori di luci (
Aftermath of Oblitaration of Eternity, 2009), o dal video psichedelico
che racconta l’attività performativa di Kusama negli anni ‘70 (
Kusama Self
Obliteration,
1967).
In questo modo, l’artista riesce a far percepire al suo
pubblico le stesse sensazioni che la assalgono durante la creazione. La
frammentazione delle forme sulla tela, dunque, come una lacerazione dell’anima.
Una sensazione di vertigine che può assalire chiunque e che si propaga nei
dipinti come un’unica eco.
Apprezzato oggi soprattutto dal mercato dell’arte
contemporanea (che lo premia con le quotazioni altissime raggiunte nelle
principali aste), il lavoro di Kusama fu da subito seguito con interesse anche
dagli artisti dell’epoca.
Lucio Fontana aiutò l’artista giapponese a realizzare
Narcissus
Garden,
installazione che colpì pubblico e critica alla Biennale di Venezia del 1966 e
che viene riproposta al Pac.
L’intervento, durante il quale Kusama cercò di vendere
agli spettatori delle sfere metalliche riflettenti, era una forte presa di
posizione contro la mercificazione dell’arte. A più di quarant’anni
dall’evento, viene da chiedersi se molta di quella forza critica non sia
irrimediabilmente scemata nel lavoro di Kusama.
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Ho visitato la mostra al Pac, non conoscevo l'artista e devo dire che sono rimasta piacevolmente colpita.
http://www.youtube.com/watch?v=9mH5MHu4Pkc