L’ansia di sperimentare forme e nuovi materiali in funzione di una riscrittura dello spazio è una delle costanti nel lavoro di
Loris Cecchini (Milano, 1969), che sin dal 1993 si serve per le sue creazioni dell’ausilio delle tecnologie digitali e di sostanze come gomme uretaniche, resine, silicone, alluminio e cellulosa. L’utilizzo di questi elementi spiega bene l’esordio dell’attività di Cecchini, iniziata modellando materie morbide e duttili, per poi passare all’utilizzo del medium fotografico, che in un primo tempo si avvaleva di stampe su supporti poco usuali come quelli delle carte di chewing-gum (
Aromi naturali, 1996).
L’artista milanese si è distinto negli anni soprattutto come autore di installazioni e “non-sculture” che, se da un punto di vista tecnico sono create con l’ausilio di queste tipologie di materiali, da un punto di vista estetico mettono in atto una decostruzione e una ricostruzione dell’immagine dell’oggetto di partenza, il quale viene prima smontato e poi replicato in un “fantasma dell’originale” (come nella serie
Empty walls – just doors, 2006, o nella più nota
Stage evidence, 1998).
L’esposizione da Photology propone nuovi (ma pochi) lavori in edizione unica, in cui Cecchini riallestisce la propria personale messa in scena dei materiali, assemblati in strutture fittizie per poi essere fotografati.
Tuttavia, la presenza stessa di queste “costruzioni” e l’ingrandimento fotografico del dettaglio contribuiscono a creare un’ambientazione irreale, in cui emerge l’artificiosità degli oggetti e degli elementi presenti, che galleggiano sull’acqua in equilibro precario.
Su iceberg immaginari si reggono strutture architettoniche simili ad abitazioni, realizzate con lastre trasparenti in poliestere, resine, pellicole prismatiche e materiali simili, resistenti nel tempo e in antitesi con la caducità del ghiaccio sui cui poggiano. La trasparenza delle superfici e le tonalità neutre tendono a prevalere in tutta l’opera, così come i paesaggi spogli che generalmente contengono poche tracce della figura umana (qui del tutto assente), in continuità con quanto accade in molte altre fotografie, installazioni e “sculture” dell’artista. Così, in
Sliding construction and drifting thoughts (2009) i grigi e i colori freddi di queste idee-oggetto e stati d’animo alla deriva sembrano rimandare più ad assenze che a vere proprie presenze.
Cecchini è da sempre interessato a creare una terza dimensione dove dominano il paradosso e spazi di pura immaginazione. Di fronte a questa serie, l’osservatore non può che sentirsi, ancora una volta, disorientato.