Carlo Barcellesi, in arte Maurizio Milani, ha voluto farsi chiamare così perché pensava che Paolo Rossi avesse scelto un nome tanto comune per ironizzare sul concetto stesso di nome d’arte. Non era vero, e non lo è nemmeno per
Michael Smith (Chicago, 1951). A volte ti tocca un nome anonimo.
Se lo cercate su Wikipedia, ce ne sono una settantina, tra “Michael” e “Mike”. Su Google, il primo risultato è un cantautore cristiano, Michael W. Smith, un tipico rampollo del West Virginia cresciuto a baseball e Gesù. Quello che interessa a noi, l’artista performativo, ha uno sguardo un po’ differente, per quanto si mostri spesso in veste di giovane virgulto della Ivy League.
Per decenni, Michael Smith ha indossato i panni di Mike, il suo alter ego. Mike tenta di distinguersi in una schiera di omonimi e omologhi tramite una fibbia personalizzata; colleziona cravatte, carte di credito e di fidelizzazione, si presta a ogni genere di training e a corsi gratuiti di auto-formazione, si veste bene prima di andare a una festa e ama le luci da discoteca. È ispirato e affascinato dai valori, dall’estetica, dalle affettazioni formali della stessa America che, probabilmente, Michael W. ispira con le sue canzoni.
Le opere esposte nella retrospettiva da Emi Fontana coprono oltre trent’anni di lavoro, durante i quali Mike si è manifestato sui media più svariati. Da vecchi schizzi ai video, da un fotoromanzo a collezioni in progress di oggetti. C’è anche un’opera audio e una serie di foto di gruppo dell’artista con gli studenti del corso che tiene alla University of Texas, dove cercare il suo volto fa venire in mente i libri della serie
Where’s Waldo?.
A parte le due performance dell’inaugurazione – visionabili su YouTube, sul canale della galleria -, durante le quali l’artista ha portato in scena anche Baby Ikki, altro suo personaggio, il piatto forte sono i video. Si va dal mockumentary (
The Musco Story, 1997;
The QuinQuag, 2002) al videoclip (
Go for it Mike, 1984). In genere, Smith gioca sugli stilemi televisivi e ne imita i codici, i ritmi e l’estetica kitsch, ma non mancano cortometraggi con invenzioni visive simboliche o surreali (
Secret Horror, 1980).
Il Mike che emerge da questi lavori è spesso un fantoccio dei media, tra il Candido di Voltaire e il Dustin Hoffman del
Laureato, prigioniero di una tentennante e perpetua maturazione ai confini dello status quo. La sua camminata ricorda a volte quella allucinata dei fumetti di
Robert Crumb, le sue smorfie stupite sembrano quelle di Richard Pryor e il suo sorriso affabile è quello di ogni scrittore e imprenditore di successo, stampato in bianco e nero sul retro del libro che ti ha appena autografato. Ha anche un che di Fonzie, visto da certe angolazioni.
C’è comunque molto Michael Smith dentro Mike, ma non si tratta di una personalizzazione alla
Joseph Beuys. Non c’è nessuna rivoluzione in corso, quanto piuttosto lo stupore di trovarsi a essere pupazzi di una società dove non basta il nome a renderti un individuo.