Soprassedendo all’idea tradizionale delle fotografia come riproduzione mimetica della realtà, la poetica di
Linda Fregni Nagler (Stoccolma, 1976; vive a Milano) è strettamente connessa a un’idea di tempo che potremmo dire sia fatta di “quasi-ricordi”: già con il film
Taken Over, l’artista svedese aveva dato forma allo slittamento semantico dell’immagine fotografica da luogo della memoria ritrovata a simulacro prodotto dalla memoria.
Con la nuova serie di lavori su fotografie originali, allestiti negli spazi di Alessandro De March, è rimasta fedele alla reminiscenza come tema ispiratore, facendo leva su questo doppio movimento degli indiscernibili fra immagine e memoria fin nel titolo della mostra,
Immemore. Nagler rinnova l’immagine conservando su di essa le vestigia del tempo e determinandone un depotenziamento semantico. Le immagini restano idoli, ma ridestate, sospese a mezz’aria fra ricordo e oblio del loro stesso significato. Ma ciò che è sepolto è riportato in superficie. Come se l’artista smuovesse i sedimenti della memoria, mutandone la conformazione. E il tempo, da categoria dell’intelletto, viene a essere una variabile della sensibilità.
I soggetti delle sue fotografie derivano da immagini preesistenti: ritratti fotografici di autori sconosciuti risalenti all’Otto-Novecento, foto trovate o acquistate e ri-fotografate con procedimento analogico, enfatizzando la duplice caratteristica dell’immagine fotografica come oggetto d’affezione e come elemento materiale (ferrotipo, sali d’argento
et cetera). La fotografia diviene qui il luogo paradossale della memoria attenuata: funzione “immemore” in quanto spostamento del significato, “quasi-ricordo”, appunto. L’uso della tecnica analogica consente di investire le fotografie di un quoziente oggettuale: non sono solo immagini, ma immagini su un supporto, che cambia nel momento in cui vengono ri-fotografate. In questo senso, il significato dell’immagine transita affievolendosi.
Caratteristica comune delle opere in mostra è dunque l’enfatizzazione di questi due elementi, il supporto, sorta di “macchina del senso”, e l’immagine, cristallizzata in un adesso immobile come una storia bloccata al momento dello scatto. Facendo al contempo riemergere ciò che era dimenticato: spesso nelle foto originali c’era uno sfondo posticcio, un allestimento scenico voluto dall’ignoto autore come simulazione di un teatro di posa.
In un caso solo le opere sono invece il risultato di uno scatto fatto in studio: la serie
Unidentified Mourners raffigura le immagini di due modelle vestite e pettinate dall’artista stessa, producendo un effetto ottico-dinamico oscillante fra l’appercezione delle macchie scure di Rorschach e i dettagli delle immagini stesse. E forse qui interviene l’altro lato della poetica di Linda Fregni Nagler, quello della visione e dell’ambivalenza dell’immagine.