Il tema della trasformazione, considerato da un punto di
vista filosofico ed esistenziale, sembra essere il filo conduttore del
concept curato da Simone Menegoi per
Raffaella Cortese e che, non a caso, si intitola
It rests by changing, alludendo a un flusso continuo
di idee, eventi, oggetti, pensieri, azioni.
Il corpus delle opere è costituito dall’interazione fra
quattro poetiche omogenee, tuttavia differenti, di quattro artisti europei del
secondo dopoguerra, più o meno coetanei. Si tratta di Rolf Julius (Berlino,
1939), Jiri Kovanda (Praga, 1953), Roman Signer (St. Gallen, 1938) e Franz
Erhard Walther (Fulda, 1939).
Il risultato è un congegno molto ben meditato, nel quale i
diversi modi di tradurre il “cambiamento” diventano i punti cardinali di un
sistema espositivo che concede ben poco al
glam. Le strutture, seppur minimali e
a volte irrisorie, non contemplano, infatti, il radical chic, bensì un’estetica
in giacca e cravatta, austera e intellettuale, fatta di materiali effimeri e strutture
fragili, disperse nell’universo dei particolari, nel quale la scultura perde lo
statuto di
dominus ed eternità, recuperando il rapporto con il corpo umano, con lo scorrere del
tempo, con il caso.
Lo conferma
Jiri Kovanda, che affronta nelle sue opere il
tema della precarietà, prelevando dalla vita quotidiana oggetti insignificanti
che sottopone, non senza una certa dose d’ironia, a forze instabili e
spostamenti di senso fuori dell’ordinario. Così, cucchiaini aggettanti dalla
parete offrono liquori che prima o poi coleranno o evaporeranno, sedie
gambizzate in bilico osservano il pezzo mancante incassato nel muro, residui di
imballaggi diventano scultura (peraltro, site specific).
Meno interessato alle pratiche dell’
object trouvé è
Franz Erhard Walther, i cui oggetti, dalle geometrie
ferree e dalle dimensioni antropometriche, trovano tuttavia ragione nel
rapporto con lo spettatore, impiegandosi come strumenti relazionali, come
cornice, come “poggiatesta”. Il lavoro di
Rolf Julius è, invece, più intimista. Il
punto di vista è dal basso, il tentativo è quello di riportare l’attenzione sui
dettagli, sulle cose umili, su ciò che spesso passa inosservato. Le foto degli
angoli, i mucchietti di polvere, le pietre diventano così protagoniste di un
processo di riabilitazione senza voce, che trova la sua interpretazione nel
materiale sonoro flebile con cui l’artista completa i suoi progetti.
Conclude il percorso il lavoro di
Roman Signer, tra performance e scultura,
ripensando a Fluxus. Come documenta in galleria anche un analogo fotografico,
l’opera si compone di tre momenti chiave: equilibrio iniziale, complicazione,
ristabilimento dell’equilibrio, con significative varianti. Ecco dunque una
colonna di secchi rossi colmi di sabbia. L’intervento programmato ne provoca,
non senza una certa violenza, la caduta. Il ritorno alla quiete, quasi
immediato, vede la sabbia rovesciata in terra e i secchi sparsi. Protagonisti
l’attimo, il caso, il tempo.
Panta rei.
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significativa ed appropriata questa scelta di menegoi. Significativa perchè in momenti di stasi, forse è più interessante fermarsi su quello che è stato. Con questo ,anche su mousseiscope, non bisogna abbandonarsi al solo revisionismo colto parafrasato da giovani epigoni della generazione dei nonni.
poggia testa ....un po erwin wurm! e' gia stato scopiazzato abbastanza dall'italiano zuffi quell'artista serio di wurm!
troppe copie in liberta!
basta zuffi!