È quasi come essere catapultati nella Romania del socialismo reale: i simboli del potere, le immagini tipiche e ormai interiorizzate di ciò ch’è stato tornano come simboli dell’arte di
Ion Grigorescu (Bucarest, 1945).
Le fotografie delle utilitarie scassate, dei casermoni squadrati, degli interni poveri e scrostati, dove la vita non è che dura sopravvivenza, sembrano un reportage documentaristico della dittatura di Ceausescu. E lui, il Conducator, non manca di certo, con il suo ritratto più volte ripetuto (
Masca 3-Masca 4, 2007) e addirittura con la gigantografia del suo viso e di quello della moglie, che pendono dal soffitto. C’è anche la registrazione di un discorso, in cui Ceausescu celebra gli sforzi della Nazione per l’industrializzazione.
La ricostruzione storica raggiunge lo stesso artista, presentato in mostra con una retrospettiva completa.
Come reagisce un giovane e soprattutto un artista alla costrizione e al continuo controllo? La reazione è spesso esasperata, una crisi di identità che si fa personale e collettiva nella comunione con il resto della società rumena, che condivide la medesima situazione. Così, negli anni ’70 Grigorescu sperimenta sul proprio corpo i limiti della sopportazione fisica o utilizza lo sfoggio della sessualità in atteggiamenti ribelli e apparentemente osceni.
Sperimentando diverse tecniche artistiche – dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla videoarte – l’autoritratto prolifera in un volto che si fa maschera disperata di un dolore che, oltre a essere fisico, è essenzialmente interiore e spirituale. La componente psicologica è fortissima, con accenni alla teoria psicanalitica. Grigorescu, infatti, si dimostra un autore particolarmente colto: nonostante la chiusura del Paese negli anni della dittatura, è riuscito a risentire degli influssi dell’arte contemporanea occidentale, con la quale non teme confronti per la propria carica eversiva e sperimentatrice.
I quadri hanno toni espressionisti, mentre per le sculture vengono utilizzati materiali poveri e di scarto, come in
Caine, 2 (1993), e le fotografie hanno spesso il sapore dell’antico; i video e le performance, infine, testimoniano della drammaticità del nichilismo.
L’artista, ormai sessantaquattrenne, dopo essersi rifugiato per un lungo periodo in un ascetismo di stampo manicheo, sembra aver trovato una soluzione al male del mondo nella salvezza cristiana, vissuta secondo il credo neo-ortodosso.