Ci aveva lasciato a canticchiare “
this is so contemporary, contemporary, contemporary!” alla Biennale di Venezia del 2005. E oggi il jingle si ripete, amplificato e arricchito di ulteriori elementi. Oltre settanta comparse fra attori, guardia sala, ballerini, cantanti professionisti e gente comune, per dare vita al teatro di
Tino Sehgal (Londra, 1976; vive a Berlino).
Nessun oggetto, dipinto o installazione: solo sculture viventi. Ma non chiamatele performance. Niente a che vedere con i linguaggi artistici degli anni ‘70, dalla Body Art all’happening. Quelle di Sehgal sono azioni, “pezzi”, dispositivi che s’innescano a contatto con il pubblico, presenze effimere che abitano i luoghi espositivi per un breve periodo, creando un momento spiazzante nella normale fruizione di questi.
L’artista si muove come il regista di un disegno complesso, dove gesti, corpi e voci diventano la materia per costruire
tableaux vivants di surreale bellezza. Il concetto di produzione viene stravolto, artisticamente ed economicamente: niente oggetti, solo situazioni inusuali che mettono il pubblico in uno stato di costante allerta. Sehgal produce infatti momenti di partecipazione ai quali lo spettatore può e deve rispondere con una performatività.
Il pubblico è parte non solo comportamentale ma anche esistenziale di questo gioco di ruoli: si ferma commosso davanti all’abbraccio infinito di
Kiss (2002), estasiato di fronte allo spogliarello sensuale di una delle guardie del museo (
Selling out, 2002) o semplicemente perplesso nell’ascoltare un disoccupato parlare del suo vissuto di disagio (
This Occupation, 2005).
Ci si aggira guardinghi per le sale, fra sculture di
Canova e dipinti di
Segantini, ma aspettandosi all’improvviso le incursioni situazioniste delle opere di Sehgal. Anche la cronaca diventa opera d’arte, subendo un insolito
détournement: news e brevi flash dai telegiornali vengono recitati all’ingresso da guardiani che sembrano posseduti. Ma il lavoro di Sehgal è anche pieno di rimandi e citazioni continue alla storia dell’arte e al passato, come in
Instead of allowing some thing to rise up to your face dancing Bruce and Dan and other things (2000), un’antologia dei gesti più celebri delle opere in video dei grandi maestri
Bruce Nauman e
Dan Graham, trasformati in una danza di una lentezza ipnotica, che si consuma davanti agli occhi di una lasciva
Maddalena di
Hayez.
Quella di Sehgal è un’opera immateriale, prende vita solo nel momento in cui la si incontra e non può essere fotografata né documentata. Non ne sopravvive alcuna traccia, se non nella memoria dello spettatore. Le azioni di Seghal rimandano al rito e alla mitologia, al fascino imprendibile della cultura orale. Tutto ciò che riguarda il lavoro dell’artista è legato all’oralità: anche le sue opere vengono vendute in contanti, senza un contratto, alla sola presenza di un notaio.
“
Non sarà un po’ vanitoso questo Sehgal, a credersi così innovativo, criticando lo stesso sistema in cui si muove?”, si chiede con tono accusatorio un altro guardiano (
This is Critique, 2008).
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...una bellissima esperienza che per di più rivaluta un museo che rimane un po' sottovalutato anche dagli stessi milanesi.
Finalmente una mostra internazionale in una città in cui le istituzioni latitano e la politica culturale è da provincia. Bravi ai signori della Fondazione Trussardi, che hanno anche il merito di aver reso più vivo un museo sottovalutato e non così di scarso interesse come si crede!
un'operazione intelligente ed interessante
Non ho mai visto nulla di così bello... nulla che parli così chiaramente e semplicemente di cosa siano l'arte, l'uomo, la vita. Tutto ciò che viene visto dopo, la sedicente arte, diventa banale in modo imbarazzante. Sehgal non snobba la più idiota delle velleità umane: essere immortali. Ma sa che non bastano i libri, le enciclopedie o quant'altro per esserlo, non crede nel paradiso. Si rimane immortali nella misura in cui si resta scolpiti dentro alle persone che ci hanno conosciuto, amato o anche solo sfiorato...
Mi unisco ad Annalisa.
marta