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08
gennaio 2008
fino al 15.I.2008 Jamel Shabazz Milano, Le case d’Arte
milano
Quanti ancora ne devono morire? Una ragazza ha in grembo la bandiera degli States, quella che dopo il funerale di un soldato lasciano alle famiglie. È acefala. Possiamo immaginare scorrere migliaia di volti, perché l'opera è volutamente undated. Non un ritratto ma uno specchio universale...
di Laura Calvi
La guerra è una parte importante dell’opera di Jamel Shabazz (New York, 1960), soprattutto dopo il grande shock del Nine Eleven, e rientra appieno nel suo più ampio raggio d’azione, rivolto anzitutto alla documentazione della periferia newyorkese, iniziata negli anni ’80. La riscoperta della periferia, simbolo di quegli anni e avvenuta nell’East Coast molto prima che da noi, presuppone il suo inserimento, innanzitutto a livello culturale, nel cuore della società e non ai suoi margini: questo è quanto le fotografie di Shabazz testimoniano.
Non sono scatti rubati tra una folla indifferente ed estranea, ma nascono fra quelle strade e quelle persone. Shabazz è uno di loro e al suo cospetto la comunità afroamericana si mette in posa e lascia emergere di volta in volta aspetti diversi: l’amore, il divertimento, la musica e il ballo, la street art ma anche la violenza, gli arresti e le notti in cella.
Protagonisti assoluti sono ragazzi e ragazze che si fanno riprendere perché quello scatto rappresenta una nuova affermazione e conferma della loro immagine, quindi di tutto ciò che essi rappresentano e vogliono far sapere di sé. Non si tirano indietro nel mostrare i loro tatuaggi contro la polizia o pose volgari, le gare di motociclette ai limiti della legalità e i loro arresti. Sul florido pancione di una donna incinta spicca un adesivo con la scritta God made me queer, esibizione orgogliosa e fiera di una condizione sociale assunta come un dovere, una missione da svolgere perché anche lei, come la donna con la bandiera, è senza volto, intercambiabile con quello di qualsiasi “mamma del Bronx”.
Non c’è denuncia né condanna, tanto meno una visione moralistica. Solo la volontà di documentare quella quotidianità che, attraverso i decibel della musica hip-hop, è entrata anche nel nostro immaginario e nella nostra memoria collettiva come l’emblema della Periferia con la “P” maiuscola, appunto quella di New York City. Anzitutto melting-pot culturale e non disagio sociale, come retoricamente trasmettono i media.
Shabazz ha portato a Milano non solo le sue opere, ma una fetta di quel mondo, allestendo per il vernissage un vero e proprio happening, fotografando i presenti e chiamando come dj Aaron Sharp, writer del Bronx, ad animare la serata. Ha inoltre insistito per un incontro con i ragazzi di un liceo artistico della città e ha rilasciato un’interessante intervista a Global Radio Milano, legata al centro sociale “Il Cantiere”. Nel suo soggiorno meneghino Shabazz ha inoltre realizzato una serie di fotografie della città, colorate bancarelle di frutta e tecnologiche carrozzerie, che probabilmente verranno inserite nel suo prossimo libro. Si dice un libro di viaggio.
Non sono scatti rubati tra una folla indifferente ed estranea, ma nascono fra quelle strade e quelle persone. Shabazz è uno di loro e al suo cospetto la comunità afroamericana si mette in posa e lascia emergere di volta in volta aspetti diversi: l’amore, il divertimento, la musica e il ballo, la street art ma anche la violenza, gli arresti e le notti in cella.
Protagonisti assoluti sono ragazzi e ragazze che si fanno riprendere perché quello scatto rappresenta una nuova affermazione e conferma della loro immagine, quindi di tutto ciò che essi rappresentano e vogliono far sapere di sé. Non si tirano indietro nel mostrare i loro tatuaggi contro la polizia o pose volgari, le gare di motociclette ai limiti della legalità e i loro arresti. Sul florido pancione di una donna incinta spicca un adesivo con la scritta God made me queer, esibizione orgogliosa e fiera di una condizione sociale assunta come un dovere, una missione da svolgere perché anche lei, come la donna con la bandiera, è senza volto, intercambiabile con quello di qualsiasi “mamma del Bronx”.
Non c’è denuncia né condanna, tanto meno una visione moralistica. Solo la volontà di documentare quella quotidianità che, attraverso i decibel della musica hip-hop, è entrata anche nel nostro immaginario e nella nostra memoria collettiva come l’emblema della Periferia con la “P” maiuscola, appunto quella di New York City. Anzitutto melting-pot culturale e non disagio sociale, come retoricamente trasmettono i media.
Shabazz ha portato a Milano non solo le sue opere, ma una fetta di quel mondo, allestendo per il vernissage un vero e proprio happening, fotografando i presenti e chiamando come dj Aaron Sharp, writer del Bronx, ad animare la serata. Ha inoltre insistito per un incontro con i ragazzi di un liceo artistico della città e ha rilasciato un’interessante intervista a Global Radio Milano, legata al centro sociale “Il Cantiere”. Nel suo soggiorno meneghino Shabazz ha inoltre realizzato una serie di fotografie della città, colorate bancarelle di frutta e tecnologiche carrozzerie, che probabilmente verranno inserite nel suo prossimo libro. Si dice un libro di viaggio.
laura calvi
mostra visitata il 21 novembre 2007
dal 16 novembre 2007 al 15 gennaio 2008
Jamel Shabazz – How many more must die. Decisive Moments
Le Case d’Arte
Via Circo, 1 (zona via Torino) – 20123 Milano
Orario: da martedì a venerdì ore 15.30-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 0272016262; info@lecasedarte.com; www.lecasedarte.com
Progetto Domestico
Via San Raffaele, 3/a (zona Duomo) – 20123 Milano
Info: tel. +39 026887400; press@studionext.it
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